Laura Mossino El-Mouelhy
Un giorno volli meglio capire Beppe Fenoglio, uomo e scrittore. Così cominciai un viaggio attraverso le colline che ne videro la vicenda partigiana e furono teatro di tutta la sua vita. Era da poco più di un mese trascorso Beltane e le verdi colline delle Langhe si preparavano alla celebrazione del solstizio d’estate, appena un poco mimetizzato nella cristiana festa di San Giovanni. In tutti i piccoli e grandi paesi affondati nelle valli del Tanaro o del Belbo o arroccati sulle verdi, fertili e tondeggianti colline ci si preparava al grande giorno. Si organizzavano feste, banchetti e fuochi, tecnologici fuochi pirotecnici, ma anche più tradizionali falò. Quasi dovunque i giovani si preparavano a prendere parte a gare di marcia attraverso le loro terre, onorando inconsapevolmente la madre, che garantisce e protegge la vita di ogni essere. In molte comunità si eleggeva una regina, una fanciulla giovane e graziosa, che per poche ore sarebbe stata la sovrana del luogo: forse un ricordo della sacerdotessa druidica che in un tempo lontano impersonava la dea e, come tale, celebrava le nozze sacre con il re, simbolo di tutto il popolo, in modo da garantire il continuare della vita attraverso la fertilità della terra, la madre di tutto e di tutti.
La stagione correva verso il solstizio d’estate, ma tale non appariva: quella mattina la collina di San Siro, da cui mi mossi, era completamente immersa in una nuvola, grigia come il piombo, dalla quale si riversavano sull’aia e sulla campagna circostante torrenti di pioggia dal cielo basso, chiuso, monotono. Ai margini dell’aia i ciliegi, ricchi di moltissimi gonfi frutti, rossi o chiaro-rosati, apparivano come fantasmi, piangenti lacrime sanguigne sulla terra satura di pioggia, mentre le più lontane viti quasi sparivano nella nebbia, nascondendo i grappoli ancora verdi, duri ed acerbi, sotto il precario riparo delle foglie fradice. La pioggia, riversandosi sui tetti e sulle foglie, riempiva l’aria di un rumore insistente e sempre uguale, che era reso ovattato dalla nebbia, che penetrava dovunque. L’atmosfera era intrigantemente magica, sospesa in un’assenza di fluire temporale: eterna.
Nonostante l’inclemenza delle condizioni atmosferiche, mi avviai verso la città di Alba e, proprio a causa dell’atmosfera sottilmente magica che permeava il paesaggio, decisi di seguire l’itinerario più lungo, viaggiando sui crinali invece che sulle comode strade del fondovalle. Quelle che seguii erano strette strade, serpeggianti ora sugli spartiacque ora sui fianchi scoscesi dei colli: ora correvano in mezzo a boschi lussureggianti, ora si precipitavano sul fondo delle valli, a volte solcate da rumoreggianti torrenti, che la pioggia sempre cadente in furiose cortine rendeva simili a grigie furie, spaventosi ed incontrollabili. Attraversai molti dei paesi che videro la guerra di Fenoglio tra i partigiani: Castiglione, Santo Stefano, Neive, poi da Mango scesi, superando il fiume, verso Alba. Mi immersi, così, completamente nel mondo di Fenoglio, come lo descrive in molti dei suoi racconti sulla guerra partigiana: il periodo delle grandi piogge, che precedette lo sbandamento delle forze di liberazione, prima del nuovo raduno e della vittoria definitiva contro il potere nazifascista.
Alba mi apparve al di là del fiume, grondante pioggia, viva di un traffico intenso, troppo nuova e moderna in contrasto con le colline senza età da cui scendevo. Man mano, però, che mi addentravo verso il centro cittadino, nel vecchio cuore della città medievale, costruito di mattoni rossi, resi lucidi dalla pioggia onnipresente, ritrovavo la giusta atmosfera in accordo con le colline: la nebbia era così bassa che si impigliava nei comignoli, nei tetti, nei balconi persino, delle case attutendo i rumori dei motori, lasciando passare solo la pioggia continua.
Beppe Fenoglio visse qui, in questa antica terra celtica ed anche se non esistono prove del suo personale coinvolgimento, o interesse, nelle antiche tradizioni e credenze, tuttavia molti particolari della sua vita e soprattutto delle sue opere possono essere interpretati sotto questa luce.
La vita di Beppe Fenoglio può essere riassunta in poche, brevissime frasi, piene di riserbo e decoro, come era l’uomo stesso. Nacque ad Alba, nelle Langhe. Fu partigiano e combatté per la libertà. Fu scrittore, testimone della sua terra. Morì, di cancro ai bronchi all’età di quarantun anni, a Torino.
Se si legge l’opera di Beppe Fenoglio con la mente sgombra da preconcetti politici e letterari, ci si accorge che dovunque aleggia un senso sacrale, che, pur antichissimo, permea tutti gli avvenimenti del tempo attuale. È come una sottile corrente, evocata dalle immagini, dai comportamenti, dalle vicende e, in modo particolare, dall’ambiente, dal paesaggio nel quale la narrazione si svolge e prende vita. Questa sacralità mistica e senza tempo unifica in un continuum perfetto tutte le opere dello scrittore.
Fenoglio possiede in sommo grado l’abilità di rappresentare il mondo reale trasformandolo, nonostante le crude apparenze, in puro lirismo e di trasferire la realtà, pur senza cambiarla, su di un piano metafisico. Questo piano metafisico si ricollega, prescindendo dalla sua fede religiosa e dalle sue ideologie politiche e civili, con le tradizioni della sua terra, quelle tradizioni preromane, antichissime, che consideravano l’uomo parte integrante della natura, figlio della terra ed a questa legato in modo inscindibile. È in stretta connessione con la filosofia naturalistica delle popolazioni celtiche che abitarono le Langhe per lunghi secoli, che considerarono i boschi come luoghi sacri alla “grande madre”, le colline come espressioni della sua forza e della sua potenza, i raccolti come una ricompensa, secondo il patto stipulato tra i figli e la madre stessa: un patto che non poteva mai essere infranto e che non fu mai dimenticato, anche attraverso secoli e secoli di civiltà diverse e di fedi diverse.
Questo senso di comunione con la “grande dea”, di fiducia nel potere della “terra madre”, si manifesta in Fenoglio in modo del tutto spontaneo e naturale, a livello della sua anima più profondamente inconscia. In tutti i suoi scritti non compare mai, infatti, il minimo accenno erudito a proposito di miti e mitologia. Non esiste, nel modo più assoluto, la volontà intellettuale di far uso di tradizioni e credenze popolari per dimostrare o spiegare un atteggiamento, un modo di esistere dei suoi personaggi e, quindi, di se stesso. Tuttavia, nonostante questa totale mancanza di intellettualizzazione dei miti, o forse proprio per questo, tutta l’opera di Fenoglio vive in una dimensione mitica ancestrale, che in lui è del tutto istintiva, inconsapevole, naturale: perché Beppe Fenoglio stesso viveva, inconsciamente, in una tale dimensione, strettamente connessa con le origini storiche e culturali della sua terra, il Piemonte e in particolare le Langhe.
Per poter capire le origini culturali del modo di sentire di Beppe Fenoglio dobbiamo brevemente prendere in considerazione la storia del territorio piemontese e delle popolazioni che lo abitarono.
In Piemonte, a causa delle condizioni climatiche poco favorevoli e degli alti monti, esistono solo scarse tracce di presenza umana nel periodo paleolitico, mentre i reperti del neolitico sono molto più numerosi, specialmente nelle province di Alessandria e Cuneo. Sparsi in tutta la regione sono reperti appartenenti all’età del bronzo, mentre durante l’età del ferro il Piemonte assunse la funzione di tramite tra le popolazioni dei due fronti alpini ed acquistò via via un’importanza economica e strategica sempre maggiore.
Per quanto riguarda le popolazioni, si parla di Liguri in senso generico e vago, dal momento che sotto questa denominazione si raccoglie una cultura che non ha lasciato tracce epigrafiche o linguistiche dirette. Con certezza si sa solamente che i Liguri precedono i Celti sul territorio piemontese, ma con l’arrivo di questi ultimi vengono totalmente assorbiti nella nuova società, tanto che neppure i Romani, pochi secoli dopo la conquista, saranno in grado di distinguere le due popolazioni, e chiameranno Galli gli abitanti al di qua e al di là delle Alpi.
I Celti, insediati fin dal V secolo a.C. lungo il corso del Reno e del Danubio, si diffusero in tutte le direzioni; attorno al 390 a.C. invasero l’Italia del Nord e si spinsero verso le coste mediterranee tra il 350 e il 218 a.C., durante il cosiddetto periodo della cultura di La Tène.
Per quanto riguarda la lingua, quella dei Celti era una lingua indoeuropea, appartenente al gruppo germanico. Le fonti scritte mancano quasi totalmente, ma l’unità linguistica del territorio è ben attestata dai toponimi: il suffisso -dunum è presente nelle Gallie, in Spagna, in Inghilterra ed in Pannonia, e diffusi ovunque sono -durum (città fortificata), -segu (angolo fortificato), -ritus (guado) e -magus (campo). Per quanto riguarda in particolare il Piemonte, le tracce della lingua celtica sono numerose: Alpi sembrerebbe derivare dal celtico alp o alb (altura), mentre i fiumi Stura e Dora deriverebbero i loro nomi dalle radici celtiche storm e douro, o dur, entrambi con il significato di acqua corrente. Sempre di origine celtica sembra essere il nome del valico del Monginevro, dalla radice genev, porta.
Poco dopo la fine della prima guerra punica, le legioni romane si spinsero nelle regioni costiere della Liguria, per punire le popolazioni dell’aiuto concesso a Cartagine, e poi, attorno al 221 a.C., in territorio piemontese, senza che questo si trasformasse in occupazione permanente, tanto che nel 218 a.C. Annibale valicò le Alpi e tutte le popolazioni celtiche, eccetto i Taurini e gli Stazielli che si mantennero neutrali, si allearono con lui contro Roma.
Roma riprese la penetrazione nella regione dopo la battaglia di Zama (202 a.C.) e attorno al 173 a.C. la conquista del Piemonte meridionale si può dire conclusa. Postumio Albino costruì una strada che collegava Genova con Piacenza e Cremona, e in seguito raggiunse i valichi alpini.
La conquista totale della regione da parte di Roma avvenne solamente nel 101 a.C., con la sconfitta dei Cimbri e dei Teutoni ai Campi Raudii (probabilmente la Baraggia vercellese): con l’insediamento dei veterani inizia il processo di romanizzazione della regione. Questa si può dire completa durante l’impero di Augusto, se per romanizzazione si intende l’amministrazione e la struttura delle nuove città, la costruzione di strade o il prepotere dei veterani di Roma come proprietari terrieri a scapito degli originari Celtoliguri. Tutto questo naturalmente contribuisce anche a diffondere la lingua latina, almeno per tutti gli usi ufficiali e commerciali, e risulta ben visibile nei nomi delle città, che acquistano forma romana, come Alba Pompeia, Augusta Bagiennorum, Segusium, Hasta Pretoria, Augusta Taurinorum, pur conservando l’originaria radice celtica.
Si tratta, tuttavia, di un’apparente romanizzazione, perché il carattere e la civiltà di Roma restano, se non del tutto, almeno parzialmente estranei ai Celtoliguri e in particolare si può dire che il processo di assimilazione non abbia se non minimi effetti fra le popolazioni delle colline e delle montagne.
Con la decadenza dell’impero avviene poi un processo di rimescolamento delle popolazioni, quando altre genti si sovrappongono sui Celtoliguri, dai Longobardi ai Saraceni: ma, nonostante le diverse influenze, la cultura celtica riuscirà in qualche modo a sopravvivere, fondendosi con quella delle popolazioni successive solo in parte, acquisendo abitudini, costumi e termini linguistici nuovi, ma in definitiva mantenendo attraverso i secoli alcune delle caratteristiche principali di quella popolazione che a lungo fu la dominatrice del territorio.
Naturalmente, con la conquista romana oltre alla lingua fu introdotta nelle due Gallie anche la religione ufficiale dei conquistatori, i quali, però, molto pragmaticamente non pretesero che le popolazioni assoggettate abbandonassero il loro credo, accontentandosi di assimilare le divinità romane a quelle celtiche più o meno corrispondenti e imponendo solamente il culto dell’imperatore divinizzato.
Nonostante questa permissività da parte dei dominatori romani, la religione dei Celti resta ancora oggi in gran parte misteriosa e questo per due diversi motivi. Uno è che i Celti privilegiarono sempre la trasmissione orale, l’altro è che con l’affermazione del Cristianesimo come religione ufficiale si cercò in tutti i modi di sradicare quanto di pagano ancora esisteva nella cultura e nelle tradizioni popolari. Questo processo di annientamento della cultura pagana durò per lungo tempo, con successo relativo: dove la nuova religione non riuscì a sradicare le credenze antiche le inglobò in forme sincretiche, che resistono ancora oggi e che lasciano trasparire la loro origine lontana, celtica o romana, ma sempre comunque precedente l’avvento del Cristianesimo.
Un gran numero di autori classici ha trattato della religione dei Galli. Tra questi di grande importanza è Cesare, che nel VI libro del De bello gallico dedica all’argomento alcuni capitoli, rifacendosi alle opere di Apollonio Rodio (III secolo a.C.) e fornisce l’interpretatio romana delle principali divinità celtiche. Cesare menziona tra le principali divinità Minerva, che presso i Celti era la patrona dei mestieri, sia maschili che femminili, e della guerra, con funzioni del tutto simili a quelle dell’irlandese Brigid. Brigid è stata messa in relazione con il fuoco rituale, che porta la guarigione, e allo stesso tempo è considerata propiziatrice di fertilità, in rapporto con le antichissime veneres, dette anche matres e matronae.
Il culto di queste divinità femminili si perde nella più lontana preistoria e ne sono state ritrovate statuette votive, dalla tipica struttura steatopigia, in tutto il territorio di civiltà indoeuropea. Le matres, o veneres, rappresentano la “madre” e questo è il simbolo più immediato per concepire l’energia vitale ed il suo perenne rinnovarsi, e vi si deve scorgere uno strumento magico legato ai culti della fecondità, non tanto in relazione all’uomo, quanto piuttosto al rapporto uomo-natura ed al continuo ciclo di vita-morte-resurrezione.
Tutti i miti legati alle matres hanno caratteristiche comuni. In primo luogo, sono estremamente antichi e strettamente connessi con i cicli della natura. In secondo luogo, tutte le “dee madri” presentano nella loro personalità due aspetti opposti: la datrice di vita è anche colei che la toglie. Sono pertanto tutte dee della fertilità, tutte sono connesse con l’oltretomba e tutte richiedono una qualche forma di sacrificio affinché il ciclo vitale possa rinnovarsi.
Per quanto riguarda i Celti, il culto di una magna mater, una “grande dea”, è diffuso in tutti i loro territori e il fatto che la dea sia rappresentata sovente per mezzo di una triade sembrerebbe indicare le tre diverse età della vita femminile: la vergine, la madre ed infine la maga, che per mezzo delle sue arti magiche è in contatto con l’oltretomba e propizia la resurrezione.
Il culto celtico più diffuso era tributato alla triade che comprendeva Badb, Nemain e Morrigain. La prima di queste dee, Badb, aveva un carattere spiccatamente guerriero, sovente combatteva per mezzo delle sue arti magiche e si mostrava in forma di cornacchia. Era sostanzialmente una figura demoniaca, ma nonostante questo era legata ai riti della nascita, quindi presentava il dualismo tipico delle matres: datrice di vita ed apportatrice di morte. Di Nemain, a parte il nome, non si conosce quasi nulla, mentre di Morrigain, il cui nome in irlandese significa «regina dei fantasmi», si sa che è un’abilissima maga e che può risanare e addirittura riportare alla vita. Morrigain, con il nome di Morgain la Fè, sopravvive nelle leggende del ciclo arturiano.
Appare evidente da quanto detto sopra come nelle società primitive, quindi anche in quella celtica, si sia posto un forte accento sul potere femminile e spontaneamente ci si chiede il perché.
Secondo Jung nell’archetipo della “dea madre” si ritrovano i sentimenti primordiali, la magia della procreazione, la saggezza che trascende la ragione, ciò che è benevolo e tollerante, ciò che è necessario per la crescita, la fecondità, il nutrimento. Inoltre, dal principio femminile si origina la magica trasformazione da essere impotente ad adulto potente, trasformazione vista come una morte iniziatica ed una rinascita. Dal principio femminile si originano ancora l’istinto e tutto ciò che è segreto ed occulto, le tenebre e, per estensione, il regno dei morti, oltre a tutto quanto affascina, seduce e insieme provoca angoscia e infine la morte stessa.
Per questo motivo agli albori della civiltà troviamo quasi dovunque tracce di società matriarcali, nelle quali il potere apparteneva alle donne quali detentrici della fertilità e del mistero connesso con il concepimento e la nascita. In particolare, le società agricole ebbero una più forte tendenza matriarcale, poiché nell’archetipo femminile erano presenti riferimenti chiari alla terra, che produce gli elementi necessari alla continuazione del ciclo vitale. Per questo le “dee madri” divennero nella coscienza dell’uomo primitivo l’alfa e l’omega della vita, in una visione perennemente dicotomica tra il benigno ed il maligno.
Con il passare del tempo e con l’evolversi della società, si passò ad un regime patriarcale e di conseguenza ad un nuovo atteggiamento culturale e psichico, che poneva il padre creatore in una posizione preminente rispetto alla madre generatrice. Questo passaggio di poteri avvenne certamente in tempi molto anteriori a quelli storici, ma, al contrario delle altre culture indoeuropee, quella celtica restò sempre molto legata alla venerazione dei fenomeni e degli oggetti naturali e conservò più a lungo, almeno per quanto riguarda la religione e in particolare la magia, una specie di tradizione matriarcale, che sembra, almeno a livello inconscio, essere ancor viva oggigiorno nelle aree degli antichi territori dei Celti.
Ministri del culto e maestri erano presso i Celti i druidi, una casta a parte di sacerdoti e sacerdotesse, che godettero attraverso i secoli di fama alterna. Alcuni studiosi moderni non vorrebbero vedervi altro che sciamani, esperti di magia, mentre la tradizione classica li tenne in grande considerazione e, secondo quanto affermato nel De clarorum philosophorum vatis di Diogene Laerzio (III secolo d.C.), Aristotele stesso li avrebbe definiti inventori della filosofia ed avrebbe lodato le loro teorie circa l’origine e la fine dell’uomo.
Il termine “druido” potrebbe derivare dalla radice celtica druwids, che significa “molto saggio”, con allusione alle loro molte conoscenze nelle dottrine esoteriche, sull’immortalità dell’anima, nella magia naturalistica, nella cosmogonia, nell’escatologia e nello studio e interpretazione dei fenomeni celesti. A questi si aggiungevano vati e bardi, anch’essi appartenenti alla casta sacerdotale e in un certo modo separati dal resto della società. Il termine “vate” potrebbe derivare da faith, ancora presente in irlandese con il significato di “veggente”, “profeta”, oppure dal medio-alto tedesco wut, che significa “violento turbamento” spirituale, e in tutti e due i casi indica un sacerdote indovino capace di trance profetica.
I bardi, invece, si occupavano della trasmissione e dell’insegnamento orale della poesia e della storia, ed erano spesso considerati messaggeri degli dei, grazie al potere evocativo della loro arte. Le funzioni di druidi, vati e bardi erano, comunque, strettamente connesse e sovente si sovrapponevano.
Esisteva anche una casta di sacerdotesse, custodi dei luoghi di culto e del fuoco sacro, capaci di trasformarsi in animali, eccellenti guaritrici di ogni malattia ed esperte nel predire il futuro.
Questi sacerdoti e sacerdotesse, onorati e venerati, erano tuttavia posti a parte, quasi separati dal resto della società: la loro sapienza li rendeva degni di rispetto e di timore e li metteva in relazione con le matres, delle quali condividevano la dicotomia. A questo timore reverente nei confronti di esseri ritenuti diversi, si può forse riallacciare la credenza nei settimini e nelle masche, diffusa dovunque in tutto il Piemonte e ancora viva ai giorni nostri. La coscienza popolare conferisce a settimini e masche poteri particolari di guaritori, la capacità di conoscere il futuro, la conoscenza delle erbe e del loro uso: in una parola tutte le abilità che erano proprie dei druidi, dei vati e dei bardi. Ne consegue che nelle figure di settimini e masche, oltre l’ombra dei grandi druidi, indovini, saggi e guaritori, si potrebbe scorgere anche la dicotomia tipica delle “dee madri”, sempre sospese tra bene e male, tra l’essere datrici di vita ed insieme apportatrici di morte.
Il persistere di questa fede popolare porterebbe a pensare che l’antica fede naturalistica, che era dei Celti, si sia unita sincreticamente con il culto cristiano, che in buona parte la inglobò in nuovi riti, in accordo con la nuova fede. La Chiesa, così facendo, in parte trasformò i rituali antichi, cambiandone parzialmente le manifestazioni, inventandone nuove origini e nuovi significati, ma anche contribuì a tramandarli e, contro la propria volontà, a mantenerli in vita. Così le masche delle Langhe, eredi delle druydae, con molte delle caratteristiche delle matres, continuano a vivere, temute ed insieme onorate, non solo come retaggio dei tempi passati, ma anche come fenomeno attuale.
In modo inconsapevole, Beppe Fenoglio, figlio delle Langhe, partecipa a questa cultura ancestrale, tanto è vero che tutta la sua narrazione, come le antiche leggende irlandesi, o le canzoni popolari della tradizione piemontese, si svolge in una dimensione epica, e non sorprende, dal momento che i suoi soggetti vertono sempre sul tema della lotta per la vita, sia nei racconti di ispirazione contadina che in quelli che narrano la sconvolgente epopea della Resistenza. Però, al contrario di altri scrittori a lui contemporanei, la sua interpretazione della dura vita delle Langhe, in pace ed in guerra, non si riduce mai ad un bozzetto puramente verista o neorealista, e la tragedia partigiana non diviene mai una semplice cronaca, così come non si stempera mai nell’elegia. Al contrario, sia l’uno che l’altro tema riescono a trovare un equilibrio quasi perfetto tra rappresentazione del privato e rappresentazione della storia e si fondono in un unicum indivisibile, in una forma quasi omerica, o ariostesca, per dirla con Calvino, di epica della vita: il tutto con un senso dell’eroismo totalmente privo di connotazioni intellettualeggianti, ma inserito nella natura e in armonia con essa.
A questo epico senso di eroismo si aggiunge, senza che intervenga alcun processo intellettuale, in modo del tutto naturale e spontaneo, l’idea della “terra madre”, sovente esemplificata nella Cascina della Langa, simbolo di tutta quanta la sua terra. La cascina è un luogo reale, ma la sensibilità di Fenoglio e la sua comunione con la vita della natura ne annullano l’esistenza fisica e la trasformano nell’immagine stessa della “madre”, meglio ancora della “terra madre”, la “grande dea”.
Questa religiosità istintiva e naturalistica è presente in tutte le opere di Beppe Fenoglio: a volte sono brevi accenni, modi di dire che si riallacciano alle antiche tradizioni e credenze, a volte sono concetti antichissimi, che lo scrittore usa in modo vivo ed attuale, perché tali sono per lui.
Un esempio eminente di questo fatto lo possiamo trovare in Una questione privata, che Italo Calvino e Lorenzo Mondo considerarono l’opera di Fenoglio più completa e perfetta. Il breve romanzo è completamente immerso nell’atmosfera di sacralità naturale che compone il substrato delle opere di Fenoglio. A creare questa atmosfera congiurano moltissimi elementi, tra i quali particolare importanza assumono i sentimenti, amore ed amicizia, il pericolo, la lotta, la morte e, sopra tutti gli altri, l’immagine della terra, amica-nemica, in bilico nell’eterna dicotomia, distruttrice-creatrice, come l’idea stessa delle “dee madri”. Nella figura della vecchia contadina che, non vista e non sentita, da lontano guarda Milton (e questi avverte la sua ombra su di sé, anche se non c’è il sole) e poi gli offre, per sfamarlo, un grande panino farcito di lardo, si possono rintracciare le tre caratteristiche tipiche delle matres: la madre che nutre il figlio, la maga che gli offre in modo soprannaturale la conoscenza e infine la morte, perché la donna è ormai vecchia e la sua ombra inesistente sembra schiacciare il giovane. Non esiste nessuna prova che lo scrittore avesse in mente le antiche matres, tuttavia il concetto stesso delle antiche dee si potrebbe essere trasformato in un archetipo mentale, comune a tutta la popolazione della regione.
Credenze e tradizioni sono inserite nella narrazione di Fenoglio come fatti normali e comuni, parte della vita del popolo e, quindi, anche parte dell’esperienza dello scrittore, che non fornisce mai di essi un’interpretazione dotta, né una spiegazione intellettuale. Si potrebbe interpretare questo fatto come un verghiano astenersi da ogni forma di giudizio da parte dell’autore, niente altro che una rappresentazione verista di quelli che sono gli usi e le credenze della gente di cui scrive. A mio parere, invece, Fenoglio usa questi particolari di cultura popolare perché egli stesso appartiene a quella cultura e sorgono naturalmente nella sua mente, senza bisogno di essere originati da un qualsiasi processo intellettuale. Se così non fosse, tutta quanta la sua opera dovrebbe essere ricondotta ad un verismo esasperato e fuori tempo e, inoltre, resterebbe del tutto inspiegata l’intrigante atmosfera magico-sacrale che pervade ogni pagina, riportando chiunque legga ad un’interpretazione naturalistica della vita, substrato irrinunciabile della cultura celtica, che condiziona in modo così profondo la scrittura di Beppe Fenoglio e che è particolarmente evidente ne La malora e ne Il partigiano Johnny.
Nel 1954, la casa editrice Einaudi pubblicò La malora: con un risvolto parzialmente negativo di Vittorini, che ferì profondamente Fenoglio. Lo scrittore di Alba si mosse sempre al di fuori di schemi stilistici prefissati e la sua fu sempre un’esperienza narrativa estremamente personale, lontanissima dalle posizioni di ogni altro scrittore del suo tempo, persino da quelle di Cesare Pavese, originario della sua stessa area geografica e culturale. La sua arte potrebbe essere parsa a Vittorini quasi come un’involuzione stilistica, un passo indietro verso un verismo alla Verga, una ricerca di preziosismi formali legati al dialetto. Giudizio estremamente ingiusto questo di Vittorini, che non teneva conto del coinvolgimento personale di Fenoglio nella vita e nella società della sua terra, della quale non intendeva cogliere solo le caratteristiche esteriori del paesaggio, ma anche e soprattutto quelle morali, evidenziando quell’atmosfera barbarica che forma il tessuto di base delle campagne piemontesi e delle Langhe. Per evidenziare questo barbarismo, Fenoglio si astiene da ogni forma di lirismo, rimane costantemente fedele alla sua esperienza personale, sia storica che geografica, e si impegna nell’uso di una lingua scarna ed essenziale, che con l’uso di molti neologismi e piemontesismi crea uno stile nuovissimo, breve, conciso ed estremamente espressivo.
Fenoglio, con la sua scrittura totalmente priva di retorica, si occupa della parte più umile dell’umanità, senza rivendicazioni populistiche o motivazioni storiche, basandosi invece sulla rappresentazione impressionistica, impiegando sovente termini dialettali, e trasporta così la narrazione in una dimensione eterna: il racconto diviene mito, senza che vi sia volontà cosciente di renderlo tale.
Il risultato fu eccezionale sul piano artistico, ma non tanto su quello politico. Fenoglio fu accusato dalla sinistra ufficiale di qualunquismo e di non essere altro che un piccolo borghese che, per mancanza di basi intellettuali, si era limitato a comporre un’opera astorica e che aveva abusato del dialetto per semplice mancanza di ispirazione, imitando alcuni modelli culturali del momento.
Questi supposti difetti sono in realtà i pregi maggiori de La malora, quelli che la rendono un cantare storico di arcana semplicità e la trasformano in un racconto quasi leggendario, atemporale: non si tratta tanto di realismo, quanto a stile, ma piuttosto di un recupero di memorie popolari collettive. Un grande senso tragico serpeggia attraverso tutto il racconto, nella rappresentazione di giorni sempre maledettamente uguali, un senso tragico che si trasforma in una forte sacralità primitiva, normale in chi, vivendo nelle Langhe antiche, non si sia mai allontanato dal contatto fisico con la “terra madre” e sia sempre vissuto in armonia con i cicli vitali della natura, come il protagonista de La malora, Agostino/Fenoglio, che non a caso racconta la sua vicenda in prima persona.
Per quanto riguarda invece Il partigiano Johnny, questo è il testo più permeato di atmosfere celtiche, sia nella sua connotazione eroica di lotta per la libertà, nel suo essere, quindi, una grande epopea tragica, sia per la sua connessione con la terra in tutti i suoi aspetti naturalistici: la terra amata, la terra perduta e riconquistata, la terra che dà la vita, la terra che dà la morte ai suoi figli. La sacralità della “grande madre” è presente in ogni pagina del romanzo, in ogni azione narrata e in ogni parola degli attori. È onnipresente e forma la base prima della vicenda, con i suoi continui passaggi tra la vita e la morte.
Il partigiano Johnny fu pubblicato postumo nel 1968 ed ebbe una complessa storia editoriale. Gli autografi dello scrittore, infatti, presentano due lezioni diverse: la prima edizione del 1968, si servì di tutte e due, e il titolo, poiché l’autore non aveva lasciato alcuna indicazione, fu deciso in sede editoriale. Le due diverse stesure furono volutamente utilizzate senza preoccupazioni di ordine filologico.
Nel 1978, fu pubblicata una nuova versione critica, diretta da Maria Corti, nella quale Antonietta Grignani si occupò in particolare de Il partigiano Johnny, e in questa le due diverse versioni de Il partigiano apparivano una di seguito all’altra.
Nel 1992, invece, venne pubblicata una nuova sistemazione dei testi originali, a cura di Dante Isella, edita da Einaudi-Gallimard, in cui si utilizzò la prima stesura originale per i primi venti capitoli e la seconda per i successivi. In questo modo l’intera prima parte della narrazione è data dall’unico testo disponibile, mentre la seconda, per la quale esistono due versioni diverse, è formata dall’ultima stesura, secondo la progressione di lavoro dell’autore.
A complicare la storia de Il partigiano Johnny esiste anche il problema dell’Ur-partigiano Johnny, cioè la primissima stesura in inglese di Fenoglio, che così componeva le sue opere e si autotraduceva in italiano solo in seguito. A complicare ulteriormente le cose avvenne, nel 1994, il ritrovamento fortunoso di un certo numero di taccuini, che recano l’intestazione della macelleria del padre di Beppe Fenoglio ed il titolo di Appunti partigiani, scritti dalla mano stessa dell’autore. Negli Appunti partigiani, scritti probabilmente a caldo, ossia durante i giorni della guerriglia, o immediatamente dopo, sono presenti molti tratti che l’autore lasciò in seguito cadere, come un maggior numero di riferimenti personali e famigliari, un coinvolgimento maggiore in prima persona, giudizi soggettivi e di parte, come la rappresentazione dei contrasti, anche violenti, fra diverse fazioni partigiane. Sono però anche presenti tutti i personaggi che popoleranno Il partigiano, i loro sentimenti, le battaglie, le vittorie, e le sconfitte, che saranno poi ritrovate nell’opera successiva, quasi che gli Appunti fossero un banco di prova per Il partigiano.
Negli Appunti compare già la dimensione epica del racconto, l’eroismo senza ostentazione, il senso sacrale della vita e della morte, quella sorta di religiosità naturalistica che bene si accorda con l’antica religione delle colline, degli alberi, dei fiumi tra i quali Fenoglio era nato, aveva combattuto ed era vissuto. Soprattutto è presente la Cascina della Langa, il fulcro morale, sia negli Appunti che nel Partigiano: il luogo dove tutto sembra confluire nelle tradizioni degli antichi, dove Beppe, che diventerà Johnny, trova rifugio e salvezza. È la valle nascosta dove la vecchia sacerdotessa-maga della “dea madre” accoglie nel suo asilo i figli dispersi, braccati e in punto di morte e dove li nasconde e li rigenera. Cascina della Langa rappresenta il legame, il cordone ombelicale con la “madre terra”: da luogo fisico e reale diviene mito, secondo un senso religioso ancestrale che appare connaturato nell’autore.
Nel Partigiano la terra non è solamente la madre di Johnny e dei suoi amici, ma è la madre di tutti, anche dei nemici. Per questo a volte può generare terrore, apparire, come egli scrive «panica, totemica». Altre volte invece offre il conforto e il rifugio che il soldato non vorrebbe mai abbandonare. Altre volte ancora appare come una vergine violata e stuprata, quando i nemici se ne sono impadroniti. A volte vi si può scorgere una reale personificazione del territorio, come quando le colline tondeggiati sono chiamate «mammelloni»: questa non è certamente un’invenzione fenogliana, bensì in tutta la regione le colline tondeggianti sono chiamate in questo modo. Il termine indica una concezione popolare della natura, che potrebbe benissimo essere il ricordo di una tradizione antica, che aveva personificato tutti gli elementi naturali e li considerava parte della divinità stessa.
Troviamo, nel Partigiano Johnny, un episodio in cui questa concezione della terra è evidente in modo particolare. Johnny è in fuga e immaginando che i suoi amici, Pierre e Michele, siano stati uccisi, senza pensare, si dirige, per trovare rifugio e consolazione, a Cascina della Langa, dove trova non solo riparo ma anche gli amici sani e salvi. È questo il punto centrale del substrato possibilmente celtico del romanzo: un luogo nascosto, non facile da trovare, arcano nella sua atmosfera di antica immobilità. È il tempio della “grande dea”, servita da una sacerdotessa senza tempo, che vive sulla terra, della terra e per la terra. Allo stesso tempo, la vecchia padrona, nonostante le sue sgradevoli caratteristiche, ha in sé l’anima di tutte le madri del mondo a causa del suo legame con la “madre” primordiale.
In seguito si fa ancora più evidente il ruolo sacrale di sacerdotessa della “madre” attribuito alla vecchia contadina, quando, liberata dopo l’arresto, ritorna alla Cascina su un carro tirato da una coppia di buoi, accompagnato come in processione dai contadini, quasi un rito druidico in onore della magna mater, e insieme un’eco dei corteggi di Demetra e Cibele, tanto più che la vecchia, come queste antiche dee della fertilità, è sempre accompagnata da un animale potenzialmente feroce, una femmina di cane lupo. I fascisti, invece, i nemici che l’hanno presa prigioniera, la definiscono una strega, perché sono troppo lontani dal naturalismo di chi vive sulle colline. Oltre a non capirne la lingua, non comprendono neppure l’aura di sacralità che aleggia intorno a chi è sempre vissuto in contatto con la terra e non ha mai dimenticato la sua forza e la sua compassione. Tuttavia, in minima parte e senza capirne a fondo il significato, anche i nemici avvertono quanto di sacro e misterioso vi è attorno alla vecchia contadina, e, proprio per questo, oltre che per la loro chiusura mentale, la definiscono “strega”, perché questo è quanto scorgono in lei, una vecchia donna, che vive isolata dal resto del mondo, una persona diversa, una strega: onorata, invece, come una sacerdotessa, come la stessa “grande madre” dalla gente delle colline, che non ha mai perduto il legame con le proprie origini e con la natura.
Quando, dopo aver visitato Alba ed essermi immersa con commozione e partecipazione nei luoghi in cui visse Beppe Fenoglio, presi la strada del ritorno, la nebbia cominciava ad aprirsi in alto e rimaneva densa e pesante solo sul fondo delle valli. Dai crinali degli alti colli nei dintorni di Mango, lo spettacolo era mozzafiato, anzi, breathtaking, come egli avrebbe scritto. La pioggia accennava finalmente a cessare ed era ormai ridotta ad un’acquerugiola sottile. Il cielo non era più un insieme plumbeo di nuvole basse e compatte, ma un ribollente calderone di cumulonembi, neri, o grigi, o bianchi, in rapido accavallarsi. La terra brillava, umida e nera, e tutta la vegetazione scintillava, lucida e pulita, fresca e luminosa. Le valli, sul fondo, conservavano ancora bioccoli di nebbia, ma le colline si ergevano come rinate, scure, verdi, piene di vita nei loro anfratti scoscesi, simili a velluto per la ricchezza della vegetazione. Altrove le vigne allineavano i loro filari essenziali in perfetta simmetria: un inno al lavoro umano ed alla fertilità della terra. Altrove ancora, le colline si facevano soffici e morbide, tondeggianti, rese seriche dalla vegetazione vista in lontananza.
Mentre immobile contemplavo questo spettacolo senza tempo dall’alto di un crinale, che mi permetteva contemporaneamente la vista su due valli, mi venne in mente che, al di là di molti particolari nelle opere di Fenoglio che possono alludere alle antiche tradizioni, proprio in questa visione della terra si può trovare un parallelo con la concezione della natura che era propria delle antiche popolazioni del Piemonte. Infatti, in tutte le sue opere, egli ci offre un’interpretazione della terra che si riallaccia in spirito alle antiche tradizioni, filtrate attraverso secoli e secoli di repressioni e rivestimenti con fedi diverse. Nonostante le sovrastrutture, nei momenti di maggior pericolo, l’anima dell’uomo ritorna istintivamente ai suoi sentimenti primordiali e si rifugia in una visione naturalistica dell’esistenza.
Se si volesse dare delle opere di Fenoglio un’interpretazione psicoanalitica di indirizzo freudiano, si potrebbe dire che tutto comincia con il padre e finisce con il padre, questi prendendo via via le sembianze di un vero padre, come ne La malora, oppure dei vari capi partigiani, come Nemega, Lampus, o Nord, oppure di partigiani amici, come Michele o Pierre. Tutto sarebbe, in questo modo, ridotto ad un sentimento di amore-odio di stampo edipico, dove l’amore per la madre vive tra la gelosia nei confronti del padre ed il desiderio-orrore dell’incesto. Da parte mia, preferisco leggere le opere di questo grande scrittore tenendo presenti le tradizioni antiche della sua, e mia, terra.
Fenoglio racconta l’epopea della terra, e la terra è interpretata a volte liricamente, a volte drammaticamente, a volte in senso trascendente, a volte in senso immanente, come la “madre”, la “grande dea”, la datrice di vita e, a causa delle azioni dei suoi figli, l’apportatrice di morte. Gli uomini, i figli della “dea madre terra”, combattono l’uno contro l’altro in nome di ideologie astratte, che alla fine si traducono tutte nel desiderio di libertà. La libertà si identifica, per Johhny e per gli altri suoi fratelli letterari, nell’unione-vita con la “madre” universale, la “grande dea”, la terra. Johnny, per esempio, è un cittadino che, come lo stesso scrittore, non ha perduto il contatto fisico con la terra e la riconosce come la propria madre ancestrale. Questo bisogno di contatto fisico è particolarmente evidente nelle scene di battaglia, nella descrizione delle fughe, nei tentativi di nascondersi alla furia dei nemici in mezzo agli anfratti ed ai boschi delle colline. Si trovano descritti molto sovente i rittani: profonde, scoscese spaccature nel corpo delle colline, quasi sempre coperti di ricchissima vegetazione. Sul fondo dei rittani, quasi sempre, scorre un piccolo, ma impetuoso torrentello, che rende la discesa e l’attraversamento molto difficili, sovente pericolosi. Il rittano rappresenta l’ultimo rifugio, il luogo sacro, inaccessibile a chi abbia perso la capacità di contatto con la “terra madre”. Cercare rifugio in questo abisso significa, infatti, penetrare nel corpo stesso della terra, affidare la propria vita ad elementi che possono essere molto ostili per chi non sappia più riconoscerli come parti integranti della propria esistenza, ma che anche sanno essere benigni, pietosi, amorevoli con chi, invece, viva in armonia con la vita della terra.
Vi è nell’intera opera di Fenoglio un grande, sincero, primitivo amore per la terra: la “madre” offre riparo ai fuggiaschi, li copre con le sue fronde, impasta con il fango, che è il suo sangue, i loro volti e li mimetizza, assimilandoli alle sue stesse membra, inghiotte i suoi figli in anfratti profondi, proteggendoli, salvandoli, senza sentirsi violata, perché essi vivono all’unisono con la sua esistenza e le sue stagioni.
A questa simbiosi tra lo scrittore e la sua terra pensavo, mentre dal crinale dell’alta collina contemplavo le due valli, lucide per la pioggia, ormai quasi cessata, ed al fatto che l’unica figura femminile di grande rilievo nei romanzi di Fenoglio è proprio la terra: ora è la vergine, violata e stuprata dalle battaglie, ora è la madre, che offre il suo seno come rifugio e nutrimento per i suoi figli. Ora, invece, è simile alla Morrigain, che porta la morte, ma è pietosa, tuttavia, verso la povera, effimera umanità, e accoglie le spoglie dei figli nel suo ventre, con la promessa di una nuova, mutata vita, scandita dal ritmo delle stagioni, eterne, come la terra stessa.
L’unica donna reale che abbia un qualche peso nel Partigiano, ad esempio, è la vecchia della Cascina della Langa, e rappresenta la maga, l’ultima incarnazione della “grande dea” e la sua sacerdotessa. Altre figure femminili compaiono nella narrazione, naturalmente, madri, sorelle, innamorate, spose. Vi è Elda, ambigua adolescente, evanescente figurina dal sottile fascino perverso, giovane donna senza radici e senza ideali, che ha la sublime audacia di prostituirsi per poter offrire due pacchetti di sigarette a Johnny, che combatte per l’ideale di tutti, la libertà; ma Elda e le altre sono tutte figure marginali, vive solo un attimo nell’economia del racconto. Completamente diversa, invece, è la vecchia della Cascina della Langa: è una donna anziana, contadina da sempre, solitaria nel suo casale, a stretto contatto con la terra. Non ha fascino ma ha una maestà ed una dignità che tutti le riconoscono inconsciamente. Le genti delle colline le rendono omaggio come ad una regina e scorgono in lei, al di là della miseria umana, la personificazione della terra, perché è sempre vissuta in stretto contatto con essa. Si trovano in lei la nobiltà e la potenza della sacerdotessa della “grande dea”, di colei che conosce i misteri della natura e del tempo e dell’eterno ciclo di vita, morte e resurrezione.
Questi sono gli stessi ritmi naturali che, senza neppure esserne cosciente, Beppe Fenoglio conosceva e che ha lasciato intuire ai suoi lettori.