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LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO
POESIA CLASSICA
UN PROCESSO PER STREGONERIA
E
LUCE IRIGARAY
Laura Mossino El-Mouelhy
Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.
In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieros gamos con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.
Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.
Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.
Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.
Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.
Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.
E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.
Questo praticamente sino al secolo ventesimo.
Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.
Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.
Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.
Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.
Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.
Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.
Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.
Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.
Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.
Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.
Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.
L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.
L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.
Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.
Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.
Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.
Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.
L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.
Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione
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In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.
Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.
Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.
Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.
Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.
La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.
Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.
Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.
Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.
Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.
Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.
Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.
Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.
Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.
Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!
I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.
Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.
Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.
Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?
Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.
Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.
Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.
Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.
Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.
Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.
Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.
Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.
Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.
Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.
L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.
La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.
Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.
Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.
Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.
Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.
Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.
Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.
Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.
Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.
Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.
Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.
Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.”
Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.
Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.
I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei neoteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.
Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.
I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.
Saffo, LI.:
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda e la voce
ouden et eikei,
non esce e la lingua si lega.
Un fuoco sottile sale rapido alla pelle
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
.. a me rapita di mente
(trad. Salvatore Quasimodo).
Catullo, LI.:
Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio
ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei
qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta
spectat et audit ti guarda e ti ascolta
dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che
eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non
Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza
mi è rimasta,
…….
Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la
pelle un sottile
Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono
tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi
Lumina nocte. si coprono di duplice notte.
Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.
Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.
Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.
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LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO
POESIA CLASSICA
UN PROCESSO PER STREGONERIA
E
LUCE IRIGARAY
Laura Mossino El-Mouelhy
23 maggio 2002
Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.
In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.
Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.
Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.
Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.
Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.
Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.
E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.
Questo praticamente sino al secolo ventesimo.
Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.
Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.
Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.
Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.
Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.
Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.
Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.
Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.
Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.
Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.
Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.
L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.
L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.
Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.
Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.
Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.
Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.
L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.
Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione
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In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.
Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.
Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.
Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.
Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.
La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.
Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.
Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.
Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.
Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.
Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.
Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.
Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.
Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.
Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!
I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.
Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.
Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.
Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?
Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.
Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.
Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.
Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.
Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.
Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.
Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.
Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.
Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.
Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.
L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.
La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.
Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.
Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.
Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.
Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.
Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.
Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.
Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.
Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.
Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.
Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.
Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.”
Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.
Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.
I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.
Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.
I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.
Saffo, LI.:
Fainhtai moi khnoV isoV qeoisin A me pare uguale agli dei
emmen wnhr, ottis enantioV toi chi a te vicino così dolce
irdanei kai plasion adu fwnei- suono ascolta mentre tu parli
saV upakouei
kai gelaisaV imeroen, to m h man e ridi amorosamente. Subito a me
kardian en sthqesin eptoaisen. il cuore si agita nel petto
wV se gar idw broce, wV me fwnaV solo che appena ti veda e la voce
ouden et eikei,
alla kam men glwssa m eage, lepton non esce e la lingua si lega.
d autika. crw pur upadedromaiken, Un fuoco sottile sale rapido alla pelle
oppatessi d ouden orhmm, epirrom- e ho buio negli occhi e il rombo
beisi d akouai, del sangue alle orecchie
a de m idrwV kakceetai, tromoV de E tutta in sudore e tremante
paisan agrei, clwrotera de poias come erba patita scoloro:
emmi, teqnakhn d oligw pideuhV e morte non pare lontana
fainom , all… a me rapita di mente
(trad. Salvatore Quasimodo).
Catullo, LI.:
Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio
ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei
qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta
spectat et audit ti guarda e ti ascolta
dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che
eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non
Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza
mi è rimasta,
…….
Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la
pelle un sottile
Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono
tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi
Lumina nocte. si coprono di duplice notte.
Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.
Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.
Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.
BIBLIOGRAFIA
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LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO
POESIA CLASSICA
UN PROCESSO PER STREGONERIA
E
LUCE IRIGARAY
Laura Mossino El-Mouelhy
23 maggio 2002
Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.
In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.
Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.
Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.
Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.
Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.
Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.
E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.
Questo praticamente sino al secolo ventesimo.
Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.
Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.
Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.
Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.
Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.
Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.
Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.
Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.
Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.
Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.
Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.
L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.
L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.
Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.
Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.
Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.
Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.
L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.
Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione
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In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.
Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.
Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.
Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.
Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.
La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.
Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.
Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.
Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.
Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.
Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.
Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.
Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.
Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.
Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!
I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.
Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.
Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.
Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?
Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.
Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.
Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.
Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.
Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.
Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.
Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.
Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.
Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.
Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.
L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.
La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.
Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.
Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.
Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.
Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.
Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.
Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.
Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.
Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.
Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.
Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.
Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.”
Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.
Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.
I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.
Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.
I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.
Saffo, LI.:
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda e la voce
non esce e la lingua si lega.
Un fuoco sottile sale rapido alla pelle
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente
(trad. Salvatore Quasimodo).
Catullo, LI.:
Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio
ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei
qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta
spectat et audit ti guarda e ti ascolta
dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che
eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non
Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza
mi è rimasta,
…….
Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la
pelle un sottile
Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono
tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi
Lumina nocte. si coprono di duplice notte.
Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.
Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.
Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.
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LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO
POESIA CLASSICA
UN PROCESSO PER STREGONERIA
E
LUCE IRIGARAY
Laura Mossino El-Mouelhy
23 maggio 2002
Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.
In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.
Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.
Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.
Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.
Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muthos in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.
Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.
E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.
Questo praticamente sino al secolo ventesimo.
Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.
Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.
Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.
Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.
Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.
Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.
Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.
Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.
Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.
Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.
Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.
L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.
L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.
Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.
Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.
Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.
Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.
L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.
Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione
.
In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.
Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.
Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.
Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.
Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.
La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.
Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.
Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.
Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.
Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.
Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.
Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.
Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.
Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.
Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!
I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.
Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.
Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.
Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?
Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.
Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.
Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.
Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.
Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.
Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.
Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.
Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.
Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.
Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.
L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.
La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.
Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.
Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.
Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.
Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.
Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.
Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.
Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.
Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.
Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.
Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.
Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.”
Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.
Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.
I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.
Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.
I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.
Saffo, LI.:
Fainhtai moi khnoV isoV qeoisin A me pare uguale agli dei
emmen wnhr, ottis enantioV toi chi a te vicino così dolce
irdanei kai plasion adu fwnei- suono ascolta mentre tu parli
saV upakouei
kai gelaisaV imeroen, to m h man e ridi amorosamente. Subito a me
kardian en sthqesin eptoaisen. il cuore si agita nel petto
wV se gar idw broce, wV me fwnaV solo che appena ti veda e la voce
ouden et eikei,
alla kam men glwssa m eage, lepton non esce e la lingua si lega.
d autika. crw pur upadedromaiken, Un fuoco sottile sale rapido alla pelle
oppatessi d ouden orhmm, epirrom- e ho buio negli occhi e il rombo
beisi d akouai, del sangue alle orecchie
a de m idrwV kakceetai, tromoV de E tutta in sudore e tremante
paisan agrei, clwrotera de poias come erba patita scoloro:
emmi, teqnakhn d oligw pideuhV e morte non pare lontana
fainom , all… a me rapita di mente
(trad. Salvatore Quasimodo).
Catullo, LI.:
Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio
ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei
qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta
spectat et audit ti guarda e ti ascolta
dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che
eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non
Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza
mi è rimasta,
…….
Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la
pelle un sottile
Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono
tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi
Lumina nocte. si coprono di duplice notte.
Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.
Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.
Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.
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