Beppe Fenoglio: Druido delle Langhe

luglio 9, 2009

Laura Mossino El-Mouelhy

 

Un giorno volli meglio capire Beppe Fenoglio, uomo e scrittore. Così cominciai un viaggio attraverso le colline che ne videro la vicenda partigiana e furono teatro di tutta la sua vita. Era da poco più di un mese trascorso Beltane e le verdi colline delle Langhe si preparavano alla celebrazione del solstizio d’estate, appena un poco mimetizzato nella cristiana festa di San Giovanni. In tutti i piccoli e grandi paesi affondati nelle valli del Tanaro o del Belbo o arroccati sulle verdi, fertili e tondeggianti colline ci si preparava al grande giorno. Si organizzavano feste, banchetti e fuochi, tecnologici fuochi pirotecnici, ma anche più tradizionali falò. Quasi dovunque i giovani si preparavano a prendere parte a gare di marcia attraverso le loro terre, onorando inconsapevolmente la madre, che garantisce e protegge la vita di ogni essere. In molte comunità si eleggeva una regina, una fanciulla giovane e graziosa, che per poche ore sarebbe stata la sovrana del luogo: forse un ricordo della sacerdotessa druidica che in un tempo lontano impersonava la dea e, come tale, celebrava le nozze sacre con il re, simbolo di tutto il popolo, in modo da garantire il continuare della vita attraverso la fertilità della terra, la madre di tutto e di tutti.

La stagione correva verso il solstizio d’estate, ma tale non appariva: quella mattina la collina di San Siro, da cui mi mossi, era completamente immersa in una nuvola, grigia come il piombo, dalla quale si riversavano sull’aia e sulla campagna circostante torrenti di pioggia dal cielo basso, chiuso, monotono. Ai margini dell’aia i ciliegi, ricchi di moltissimi gonfi frutti, rossi o chiaro-rosati, apparivano come fantasmi, piangenti lacrime sanguigne sulla terra satura di pioggia, mentre le più lontane viti quasi sparivano nella nebbia, nascondendo i grappoli ancora verdi, duri ed acerbi, sotto il precario riparo delle foglie fradice. La pioggia, riversandosi sui tetti e sulle foglie, riempiva l’aria di un rumore insistente e sempre uguale, che era reso ovattato dalla nebbia, che penetrava dovunque. L’atmosfera era intrigantemente magica, sospesa in un’assenza di fluire temporale: eterna.

Nonostante l’inclemenza delle condizioni atmosferiche, mi avviai verso la città di Alba e, proprio a causa dell’atmosfera sottilmente magica che permeava il paesaggio, decisi di seguire l’itinerario più lungo, viaggiando sui crinali invece che sulle comode strade del fondovalle. Quelle che seguii erano strette strade, serpeggianti ora sugli spartiacque ora sui fianchi scoscesi dei colli: ora correvano in mezzo a boschi lussureggianti, ora si precipitavano sul fondo delle valli, a volte solcate da rumoreggianti torrenti, che la pioggia sempre cadente in furiose cortine rendeva simili a grigie furie, spaventosi ed incontrollabili. Attraversai molti dei paesi che videro la guerra di Fenoglio tra i partigiani: Castiglione, Santo Stefano, Neive, poi da Mango scesi, superando il fiume, verso Alba. Mi immersi, così, completamente nel mondo di Fenoglio, come lo descrive in molti dei suoi racconti sulla guerra partigiana: il periodo delle grandi piogge, che precedette lo sbandamento delle forze di liberazione, prima del nuovo raduno e della vittoria definitiva contro il potere nazifascista.

Alba mi apparve al di là del fiume, grondante pioggia, viva di un traffico intenso, troppo nuova e moderna in contrasto con le colline senza età da cui scendevo. Man mano, però, che mi addentravo verso il centro cittadino, nel vecchio cuore della città medievale, costruito di mattoni rossi, resi lucidi dalla pioggia onnipresente, ritrovavo la giusta atmosfera in accordo con le colline: la nebbia era così bassa che si impigliava nei comignoli, nei tetti, nei balconi persino, delle case attutendo i rumori dei motori, lasciando passare solo la pioggia continua.

Beppe Fenoglio visse qui, in questa antica terra celtica ed anche se non esistono prove del suo personale coinvolgimento, o interesse, nelle antiche tradizioni e credenze, tuttavia molti particolari della sua vita e soprattutto delle sue opere possono essere interpretati sotto questa luce.

La vita di Beppe Fenoglio può essere riassunta in poche, brevissime frasi, piene di riserbo e decoro, come era l’uomo stesso. Nacque ad Alba, nelle Langhe. Fu partigiano e combatté per la libertà. Fu scrittore, testimone della sua terra. Morì, di cancro ai bronchi all’età di quarantun anni, a Torino.

Se si legge l’opera di Beppe Fenoglio con la mente sgombra da preconcetti politici e letterari, ci si accorge che dovunque aleggia un senso sacrale, che, pur antichissimo, permea tutti gli avvenimenti del tempo attuale. È come una sottile corrente, evocata dalle immagini, dai comportamenti, dalle vicende e, in modo particolare, dall’ambiente, dal paesaggio nel quale la narrazione si svolge e prende vita. Questa sacralità mistica e senza tempo unifica in un continuum perfetto tutte le opere dello scrittore.

Fenoglio possiede in sommo grado l’abilità di rappresentare il mondo reale trasformandolo, nonostante le crude apparenze, in puro lirismo e di trasferire la realtà, pur senza cambiarla, su di un piano metafisico. Questo piano metafisico si ricollega, prescindendo dalla sua fede religiosa e dalle sue ideologie politiche e civili, con le tradizioni della sua terra, quelle tradizioni preromane, antichissime, che consideravano l’uomo parte integrante della natura, figlio della terra ed a questa legato in modo inscindibile. È in stretta connessione con la filosofia naturalistica delle popolazioni celtiche che abitarono le Langhe per lunghi secoli, che considerarono i boschi come luoghi sacri alla “grande madre”, le colline come espressioni della sua forza e della sua potenza, i raccolti come una ricompensa, secondo il patto stipulato tra i figli e la madre stessa: un patto che non poteva mai essere infranto e che non fu mai dimenticato, anche attraverso secoli e secoli di civiltà diverse e di fedi diverse.

Questo senso di comunione con la “grande dea”, di fiducia nel potere della “terra madre”, si manifesta in Fenoglio in modo del tutto spontaneo e naturale, a livello della sua anima più profondamente inconscia. In tutti i suoi scritti non compare mai, infatti, il minimo accenno erudito a proposito di miti e mitologia. Non esiste, nel modo più assoluto, la volontà intellettuale di far uso di tradizioni e credenze popolari per dimostrare o spiegare un atteggiamento, un modo di esistere dei suoi personaggi e, quindi, di se stesso. Tuttavia, nonostante questa totale mancanza di intellettualizzazione dei miti, o forse proprio per questo, tutta l’opera di Fenoglio vive in una dimensione mitica ancestrale, che in lui è del tutto istintiva, inconsapevole, naturale: perché Beppe Fenoglio stesso viveva, inconsciamente, in una tale dimensione, strettamente connessa con le origini storiche e culturali della sua terra, il Piemonte e in particolare le Langhe.

Per poter capire le origini culturali del modo di sentire di Beppe Fenoglio dobbiamo brevemente prendere in considerazione la storia del territorio piemontese e delle popolazioni che lo abitarono.

In Piemonte, a causa delle condizioni climatiche poco favorevoli e degli alti monti, esistono solo scarse tracce di presenza umana nel periodo paleolitico, mentre i reperti del neolitico sono molto più numerosi, specialmente nelle province di Alessandria e Cuneo. Sparsi in tutta la regione sono reperti appartenenti all’età del bronzo, mentre durante l’età del ferro il Piemonte assunse la funzione di tramite tra le popolazioni dei due fronti alpini ed acquistò via via un’importanza economica e strategica sempre maggiore.

Per quanto riguarda le popolazioni, si parla di Liguri in senso generico e vago, dal momento che sotto questa denominazione si raccoglie una cultura che non ha lasciato tracce epigrafiche o linguistiche dirette. Con certezza si sa solamente che i Liguri precedono i Celti sul territorio piemontese, ma con l’arrivo di questi ultimi vengono totalmente assorbiti nella nuova società, tanto che neppure i Romani, pochi secoli dopo la conquista, saranno in grado di distinguere le due popolazioni, e chiameranno Galli gli abitanti al di qua e al di là delle Alpi.

I Celti, insediati fin dal V secolo a.C. lungo il corso del Reno e del Danubio, si diffusero in tutte le direzioni; attorno al 390 a.C. invasero l’Italia del Nord e si spinsero verso le coste mediterranee tra il 350 e il 218 a.C., durante il cosiddetto periodo della cultura di La Tène.

Per quanto riguarda la lingua, quella dei Celti era una lingua indoeuropea, appartenente al gruppo germanico. Le fonti scritte mancano quasi totalmente, ma l’unità linguistica del territorio è ben attestata dai toponimi: il suffisso -dunum è presente nelle Gallie, in Spagna, in Inghilterra ed in Pannonia, e diffusi ovunque sono -durum (città fortificata), -segu (angolo fortificato), -ritus (guado) e -magus (campo). Per quanto riguarda in particolare il Piemonte, le tracce della lingua celtica sono numerose: Alpi sembrerebbe derivare dal celtico alp o alb (altura), mentre i fiumi Stura e Dora deriverebbero i loro nomi dalle radici celtiche storm e douro, o dur, entrambi con il significato di acqua corrente. Sempre di origine celtica sembra essere il nome del valico del Monginevro, dalla radice genev, porta.

Poco dopo la fine della prima guerra punica, le legioni romane si spinsero nelle regioni costiere della Liguria, per punire le popolazioni dell’aiuto concesso a Cartagine, e poi, attorno al 221 a.C., in territorio piemontese, senza che questo si trasformasse in occupazione permanente, tanto che nel 218 a.C. Annibale valicò le Alpi e tutte le popolazioni celtiche, eccetto i Taurini e gli Stazielli che si mantennero neutrali, si allearono con lui contro Roma.

Roma riprese la penetrazione nella regione dopo la battaglia di Zama (202 a.C.) e attorno al 173 a.C. la conquista del Piemonte meridionale si può dire conclusa. Postumio Albino costruì una strada che collegava Genova con Piacenza e Cremona, e in seguito raggiunse i valichi alpini.

La conquista totale della regione da parte di Roma avvenne solamente nel 101 a.C., con la sconfitta dei Cimbri e dei Teutoni ai Campi Raudii (probabilmente la Baraggia vercellese): con l’insediamento dei veterani inizia il processo di romanizzazione della regione. Questa si può dire completa durante l’impero di Augusto, se per romanizzazione si intende l’amministrazione e la struttura delle nuove città, la costruzione di strade o il prepotere dei veterani di Roma come proprietari terrieri a scapito degli originari Celtoliguri. Tutto questo naturalmente contribuisce anche a diffondere la lingua latina, almeno per tutti gli usi ufficiali e commerciali, e risulta ben visibile nei nomi delle città, che acquistano forma romana, come Alba Pompeia, Augusta Bagiennorum, Segusium, Hasta Pretoria, Augusta Taurinorum, pur conservando l’originaria radice celtica.

Si tratta, tuttavia, di un’apparente romanizzazione, perché il carattere e la civiltà di Roma restano, se non del tutto, almeno parzialmente estranei ai Celtoliguri e in particolare si può dire che il processo di assimilazione non abbia se non minimi effetti fra le popolazioni delle colline e delle montagne.

Con la decadenza dell’impero avviene poi un processo di rimescolamento delle popolazioni, quando altre genti si sovrappongono sui Celtoliguri, dai Longobardi ai Saraceni: ma, nonostante le diverse influenze, la cultura celtica riuscirà in qualche modo a sopravvivere, fondendosi con quella delle popolazioni successive solo in parte, acquisendo abitudini, costumi e termini linguistici nuovi, ma in definitiva mantenendo attraverso i secoli alcune delle caratteristiche principali di quella popolazione che a lungo fu la dominatrice del territorio.

Naturalmente, con la conquista romana oltre alla lingua fu introdotta nelle due Gallie anche la religione ufficiale  dei conquistatori, i quali, però, molto pragmaticamente non pretesero che le popolazioni assoggettate abbandonassero il loro credo, accontentandosi di assimilare le divinità romane a quelle celtiche più o meno corrispondenti e imponendo solamente il culto dell’imperatore divinizzato.

Nonostante questa permissività da parte dei dominatori romani, la religione dei Celti resta ancora oggi in gran parte misteriosa e questo per due diversi motivi. Uno è che i Celti privilegiarono sempre la trasmissione orale, l’altro è che con l’affermazione del Cristianesimo come religione ufficiale si cercò in tutti i modi di sradicare quanto di pagano ancora esisteva nella cultura e nelle tradizioni popolari. Questo processo di annientamento della cultura pagana durò per lungo tempo, con successo relativo: dove la nuova religione non riuscì a sradicare le credenze antiche le inglobò in forme sincretiche, che resistono ancora oggi e che lasciano trasparire la loro origine lontana, celtica o romana, ma sempre comunque precedente l’avvento del Cristianesimo.

Un gran numero di autori classici ha trattato della religione dei Galli. Tra questi di grande importanza è Cesare, che nel VI libro del De bello gallico dedica all’argomento alcuni capitoli, rifacendosi alle opere di Apollonio Rodio (III secolo a.C.) e fornisce l’interpretatio romana delle principali divinità celtiche. Cesare menziona tra le principali divinità Minerva, che presso i Celti era la patrona dei mestieri, sia maschili che femminili, e della guerra, con funzioni del tutto simili a quelle dell’irlandese Brigid. Brigid è stata messa in relazione con il fuoco rituale, che porta la guarigione, e allo stesso tempo è considerata propiziatrice di fertilità, in rapporto con le antichissime veneres, dette anche matres e matronae.

Il culto di queste divinità femminili si perde nella più lontana preistoria e ne sono state ritrovate statuette votive, dalla tipica struttura steatopigia, in tutto il territorio di civiltà indoeuropea. Le matres, o veneres, rappresentano la “madre” e questo è il simbolo più immediato per concepire l’energia vitale ed il suo perenne rinnovarsi, e vi si deve scorgere uno strumento magico legato ai culti della fecondità, non tanto in relazione all’uomo, quanto piuttosto al rapporto uomo-natura ed al continuo ciclo di vita-morte-resurrezione.

Tutti i miti legati alle matres hanno caratteristiche comuni. In primo luogo, sono estremamente antichi e strettamente connessi con i cicli della natura. In secondo luogo, tutte le “dee madri” presentano nella loro personalità due aspetti opposti: la datrice di vita è anche colei che la toglie. Sono pertanto tutte dee della fertilità, tutte sono connesse con l’oltretomba e tutte richiedono una qualche forma di sacrificio affinché il ciclo vitale possa rinnovarsi.

Per quanto riguarda i Celti, il culto di una magna mater, una “grande dea”, è diffuso in tutti i loro territori e il fatto che la dea sia rappresentata sovente per mezzo di una triade sembrerebbe indicare le tre diverse età della vita femminile: la vergine, la madre ed infine la maga, che per mezzo delle sue arti magiche è in contatto con l’oltretomba e propizia la resurrezione.

Il culto celtico più diffuso era tributato alla triade che comprendeva Badb, Nemain e Morrigain. La prima di queste dee, Badb, aveva un carattere spiccatamente guerriero, sovente combatteva per mezzo delle sue arti magiche e si mostrava in forma di cornacchia. Era sostanzialmente una figura demoniaca, ma nonostante questo era legata ai riti della nascita, quindi presentava il dualismo tipico delle matres: datrice di vita ed apportatrice di morte. Di Nemain, a parte il nome, non si conosce quasi nulla, mentre di Morrigain, il cui nome in irlandese significa «regina dei fantasmi», si sa che è un’abilissima maga e che può risanare e addirittura riportare alla vita. Morrigain, con il nome di Morgain la Fè, sopravvive nelle leggende del ciclo arturiano.

Appare evidente da quanto detto sopra come nelle società primitive, quindi anche in quella celtica, si sia posto un forte accento sul potere femminile e spontaneamente ci si chiede il perché.

Secondo Jung nell’archetipo della “dea madre” si ritrovano i sentimenti primordiali, la magia della procreazione, la saggezza che trascende la ragione, ciò che è benevolo e tollerante, ciò che è necessario per la crescita, la fecondità, il nutrimento. Inoltre, dal principio femminile si origina la magica trasformazione da essere impotente ad adulto potente, trasformazione vista come una morte iniziatica ed una rinascita. Dal principio femminile si originano ancora l’istinto e tutto ciò che è segreto ed occulto, le tenebre e, per estensione, il regno dei morti, oltre a  tutto quanto affascina, seduce e insieme provoca angoscia e infine la morte stessa.

Per questo motivo agli albori della civiltà troviamo quasi dovunque tracce di società matriarcali, nelle quali il potere apparteneva alle donne quali detentrici della fertilità e del mistero connesso con il concepimento e la nascita. In particolare, le società agricole ebbero una più forte tendenza matriarcale, poiché nell’archetipo femminile erano presenti riferimenti chiari alla terra, che produce gli elementi necessari alla continuazione del ciclo vitale. Per questo le “dee madri” divennero nella coscienza dell’uomo primitivo l’alfa e l’omega della vita, in una visione perennemente dicotomica tra il benigno ed il maligno.

Con il passare del tempo e con l’evolversi della società, si passò ad un regime patriarcale e di conseguenza ad un nuovo atteggiamento culturale e psichico, che poneva il padre creatore in una posizione preminente rispetto alla madre generatrice. Questo passaggio di poteri avvenne certamente in tempi molto anteriori a quelli storici, ma, al contrario delle altre culture indoeuropee, quella celtica restò sempre molto legata alla venerazione dei fenomeni e degli oggetti naturali e conservò più a lungo, almeno per quanto riguarda la religione e in particolare la magia, una specie di tradizione matriarcale, che sembra, almeno a livello inconscio, essere ancor viva oggigiorno nelle aree degli antichi territori dei Celti.

Ministri del culto e maestri erano presso i Celti i druidi, una casta a parte di sacerdoti e sacerdotesse, che godettero attraverso i secoli di fama alterna. Alcuni studiosi moderni non vorrebbero vedervi altro che sciamani, esperti di magia, mentre la tradizione classica li tenne in grande considerazione e, secondo quanto affermato nel De clarorum philosophorum vatis di Diogene Laerzio (III secolo d.C.), Aristotele stesso li avrebbe definiti inventori della filosofia ed avrebbe lodato le loro teorie circa l’origine e la fine dell’uomo.

Il termine “druido” potrebbe derivare dalla radice celtica druwids, che significa “molto saggio”, con allusione alle loro molte conoscenze nelle dottrine esoteriche, sull’immortalità dell’anima, nella magia naturalistica, nella cosmogonia, nell’escatologia e nello studio e interpretazione dei fenomeni celesti. A questi si aggiungevano vati e bardi, anch’essi appartenenti alla casta sacerdotale e in un certo modo separati dal resto della società. Il termine “vate” potrebbe derivare da faith, ancora presente in irlandese con il significato di “veggente”, “profeta”, oppure dal medio-alto tedesco wut, che significa “violento turbamento” spirituale, e in tutti e due i casi indica un sacerdote indovino capace di trance profetica.

I bardi, invece, si occupavano della trasmissione e dell’insegnamento orale della poesia e della storia, ed erano spesso considerati messaggeri degli dei, grazie al potere evocativo della loro arte. Le funzioni di druidi, vati e bardi erano, comunque, strettamente connesse e sovente si sovrapponevano.

Esisteva anche una casta di sacerdotesse, custodi dei luoghi di culto e del fuoco sacro, capaci di trasformarsi in animali, eccellenti guaritrici di ogni malattia ed esperte nel predire il futuro.

Questi sacerdoti e sacerdotesse, onorati e venerati, erano tuttavia posti a parte, quasi separati dal resto della società: la loro sapienza li rendeva degni di rispetto e di timore e li metteva in relazione con le matres, delle quali condividevano la dicotomia. A questo timore reverente nei confronti di esseri ritenuti diversi, si può forse riallacciare la credenza nei settimini e nelle masche, diffusa dovunque in tutto il Piemonte e ancora viva ai giorni nostri. La coscienza popolare conferisce a settimini e masche poteri particolari di guaritori, la capacità di conoscere il futuro, la conoscenza delle erbe e del loro uso: in una parola tutte le abilità che erano proprie dei druidi, dei vati e dei bardi. Ne consegue che nelle figure di settimini e masche, oltre l’ombra dei grandi druidi, indovini, saggi e guaritori, si potrebbe scorgere anche la dicotomia tipica delle “dee madri”, sempre sospese tra bene e male, tra l’essere datrici di vita ed insieme apportatrici di morte.

Il persistere di questa fede popolare porterebbe a pensare che l’antica fede naturalistica, che era dei Celti, si sia unita sincreticamente con il culto cristiano, che in buona parte la inglobò in nuovi riti, in accordo con la nuova fede. La Chiesa, così facendo, in parte trasformò i rituali antichi, cambiandone parzialmente le manifestazioni, inventandone nuove origini e nuovi significati, ma anche contribuì a tramandarli e, contro la propria volontà, a mantenerli in vita. Così le masche delle Langhe, eredi delle druydae, con molte delle caratteristiche delle matres, continuano a vivere, temute ed insieme onorate, non solo come retaggio dei tempi passati, ma anche come fenomeno attuale.

In modo inconsapevole, Beppe Fenoglio, figlio delle Langhe, partecipa a questa cultura ancestrale, tanto è vero che tutta la sua narrazione, come le antiche leggende irlandesi, o le canzoni popolari della tradizione piemontese, si svolge in una dimensione epica, e non sorprende, dal momento che i suoi soggetti vertono sempre sul tema della lotta per la vita, sia nei racconti di ispirazione contadina che in quelli che narrano la sconvolgente epopea della Resistenza. Però, al contrario di altri scrittori a lui contemporanei, la sua interpretazione della dura vita delle Langhe, in pace ed in guerra, non si riduce mai ad un bozzetto puramente verista o neorealista, e la tragedia partigiana non diviene mai una semplice cronaca, così come non si stempera mai nell’elegia. Al contrario, sia l’uno che l’altro tema riescono a trovare un equilibrio quasi perfetto tra rappresentazione del privato e rappresentazione della storia e si fondono in un unicum indivisibile, in una forma quasi omerica, o ariostesca, per dirla con Calvino, di epica della vita: il tutto con un senso dell’eroismo totalmente privo di connotazioni intellettualeggianti, ma inserito nella natura e in armonia con essa.

A questo epico senso di eroismo si aggiunge, senza che intervenga alcun processo intellettuale, in modo del tutto naturale e spontaneo, l’idea della “terra madre”, sovente esemplificata nella Cascina della Langa, simbolo di tutta quanta la sua terra. La cascina è un luogo reale, ma la sensibilità di Fenoglio e la sua comunione con la vita della natura ne annullano l’esistenza fisica e la trasformano nell’immagine stessa della “madre”, meglio ancora della “terra madre”, la “grande dea”.

Questa religiosità istintiva e naturalistica è presente in tutte le opere di Beppe Fenoglio: a volte sono brevi accenni, modi di dire che si riallacciano alle antiche tradizioni e credenze, a volte sono concetti antichissimi, che lo scrittore usa in modo vivo ed attuale, perché tali sono per lui.

Un esempio eminente di questo fatto lo possiamo trovare in Una questione privata, che Italo Calvino e Lorenzo Mondo considerarono l’opera di Fenoglio più completa e perfetta. Il breve romanzo è completamente immerso nell’atmosfera di sacralità naturale che compone il substrato delle opere di Fenoglio. A creare questa atmosfera congiurano moltissimi elementi, tra i quali particolare importanza assumono i sentimenti, amore ed amicizia, il pericolo, la lotta, la morte e, sopra tutti gli altri, l’immagine della terra, amica-nemica, in bilico nell’eterna dicotomia, distruttrice-creatrice, come l’idea stessa delle “dee madri”. Nella figura della vecchia contadina che, non vista e non sentita, da lontano guarda Milton (e questi avverte la sua ombra su di sé, anche se non c’è il sole) e poi gli offre, per sfamarlo, un grande panino farcito di lardo, si possono rintracciare le tre caratteristiche tipiche delle matres: la madre che nutre il figlio, la maga che gli offre in modo soprannaturale la conoscenza e infine la morte, perché la donna è ormai vecchia e la sua ombra inesistente sembra schiacciare il giovane. Non esiste nessuna prova che lo scrittore avesse in mente le antiche matres, tuttavia il concetto stesso delle antiche dee si potrebbe essere trasformato in un archetipo mentale, comune a tutta la popolazione della regione.

Credenze e tradizioni sono inserite nella narrazione di Fenoglio come fatti normali e comuni, parte della vita del popolo e, quindi, anche parte dell’esperienza dello scrittore, che non fornisce mai di essi un’interpretazione dotta, né una spiegazione intellettuale. Si potrebbe interpretare questo fatto come un verghiano astenersi da ogni forma di giudizio da parte dell’autore, niente altro che una rappresentazione verista di quelli che sono gli usi e le credenze della gente di cui scrive. A mio parere, invece, Fenoglio usa questi particolari di cultura popolare perché egli stesso appartiene a quella cultura e sorgono naturalmente nella sua mente, senza bisogno di essere originati  da un qualsiasi processo intellettuale. Se così non fosse, tutta quanta la sua opera dovrebbe essere ricondotta ad un verismo esasperato e fuori tempo e, inoltre, resterebbe del tutto inspiegata l’intrigante atmosfera magico-sacrale che pervade ogni pagina, riportando chiunque legga ad un’interpretazione naturalistica della vita, substrato irrinunciabile della cultura celtica, che condiziona in modo così profondo la scrittura di Beppe Fenoglio e che è particolarmente evidente ne La malora e ne Il partigiano Johnny.

Nel 1954, la casa editrice Einaudi pubblicò La malora: con un risvolto parzialmente negativo di Vittorini, che ferì profondamente Fenoglio. Lo scrittore di Alba si mosse sempre al di fuori di schemi stilistici prefissati e la sua fu sempre un’esperienza narrativa estremamente personale, lontanissima dalle posizioni di ogni altro scrittore del suo tempo, persino da quelle di Cesare Pavese, originario della sua stessa area geografica e culturale. La sua arte potrebbe essere parsa a Vittorini quasi come un’involuzione stilistica, un passo indietro verso un verismo alla Verga, una ricerca di preziosismi formali legati al dialetto. Giudizio estremamente ingiusto questo di Vittorini, che non teneva conto del coinvolgimento personale di Fenoglio nella vita e nella società della sua terra, della quale non intendeva cogliere solo le caratteristiche esteriori del paesaggio, ma anche e soprattutto quelle morali, evidenziando quell’atmosfera barbarica che forma il tessuto di base delle campagne piemontesi e delle Langhe. Per evidenziare questo barbarismo, Fenoglio si astiene da ogni forma di lirismo,  rimane costantemente fedele alla sua esperienza personale, sia storica che geografica, e si impegna nell’uso di una lingua scarna ed essenziale, che con l’uso di molti neologismi e piemontesismi crea uno stile nuovissimo, breve, conciso ed estremamente espressivo.

Fenoglio, con la sua scrittura totalmente priva di retorica, si occupa della parte più umile dell’umanità, senza rivendicazioni populistiche o motivazioni storiche, basandosi invece sulla rappresentazione impressionistica, impiegando sovente termini dialettali, e trasporta così la narrazione in una dimensione eterna: il racconto diviene mito, senza che vi sia volontà cosciente di renderlo tale.

Il risultato fu eccezionale sul piano artistico, ma non tanto su quello politico. Fenoglio fu accusato dalla sinistra ufficiale di qualunquismo e di non essere altro che un piccolo borghese che, per mancanza di basi intellettuali, si era limitato a comporre un’opera astorica e che aveva abusato del dialetto per semplice mancanza di ispirazione, imitando alcuni modelli culturali del momento.

Questi supposti difetti sono in realtà i pregi maggiori de La malora, quelli che la rendono un cantare storico di arcana semplicità e la trasformano in un racconto quasi leggendario, atemporale: non si tratta tanto di realismo, quanto a stile, ma piuttosto di un recupero di memorie popolari collettive. Un grande senso tragico serpeggia attraverso tutto il racconto, nella rappresentazione di giorni sempre maledettamente uguali, un senso tragico che si trasforma in una forte sacralità primitiva, normale in chi, vivendo nelle Langhe antiche, non si sia mai allontanato dal contatto fisico con la “terra madre” e sia sempre vissuto in armonia con i cicli vitali della natura, come il protagonista de La malora, Agostino/Fenoglio, che non a caso racconta la sua vicenda in prima persona.

Per quanto riguarda invece Il partigiano Johnny, questo è il testo più permeato di atmosfere celtiche, sia nella sua connotazione eroica di lotta per la libertà, nel suo essere, quindi, una grande epopea tragica, sia per la sua connessione con la terra in tutti i suoi aspetti naturalistici: la terra amata, la terra perduta e riconquistata, la terra che dà la vita, la terra che dà la morte ai suoi figli. La sacralità della “grande madre” è presente in ogni pagina del romanzo, in ogni azione narrata e in ogni parola degli attori. È onnipresente e forma la base prima della vicenda, con i suoi continui passaggi tra la vita e la morte.

Il partigiano Johnny fu pubblicato postumo nel 1968 ed ebbe una complessa storia editoriale. Gli autografi dello scrittore, infatti, presentano due lezioni diverse: la prima edizione del 1968, si servì di tutte e due, e il titolo, poiché l’autore non aveva lasciato alcuna indicazione, fu deciso in sede editoriale. Le due diverse stesure furono volutamente utilizzate senza preoccupazioni di ordine filologico.

Nel 1978,  fu pubblicata  una  nuova  versione critica, diretta da Maria Corti, nella quale Antonietta Grignani si occupò in particolare de Il partigiano Johnny, e in questa le due diverse versioni de Il partigiano apparivano una di seguito all’altra.

Nel 1992, invece, venne pubblicata una nuova sistemazione dei testi originali, a cura di Dante Isella, edita da Einaudi-Gallimard, in cui si utilizzò la prima stesura originale per i primi venti capitoli e la seconda per i successivi. In questo modo l’intera prima parte della narrazione è data dall’unico testo disponibile, mentre la seconda, per la quale esistono due versioni diverse, è formata dall’ultima stesura, secondo la progressione di lavoro dell’autore.

A complicare la storia de Il partigiano Johnny esiste anche il problema dell’Ur-partigiano Johnny, cioè la primissima stesura in inglese di Fenoglio, che così componeva le sue opere e si autotraduceva in italiano solo in seguito. A complicare ulteriormente le cose avvenne, nel 1994, il ritrovamento fortunoso di un certo numero di taccuini, che recano l’intestazione della macelleria del padre di Beppe Fenoglio ed il titolo di Appunti partigiani, scritti dalla mano stessa dell’autore. Negli Appunti partigiani, scritti probabilmente a caldo, ossia durante i giorni della guerriglia, o immediatamente dopo, sono presenti molti tratti che l’autore lasciò in seguito cadere, come un maggior numero di riferimenti personali e famigliari, un coinvolgimento maggiore in prima persona, giudizi soggettivi e di parte, come la rappresentazione dei contrasti, anche violenti, fra diverse fazioni partigiane. Sono però anche presenti tutti i personaggi che popoleranno Il partigiano, i loro sentimenti, le battaglie, le vittorie, e le sconfitte, che saranno poi ritrovate nell’opera successiva, quasi che gli Appunti fossero un banco di prova per Il partigiano.

Negli Appunti compare già la dimensione epica del racconto, l’eroismo senza ostentazione, il senso sacrale della vita e della morte, quella sorta di religiosità naturalistica che bene si accorda con l’antica religione delle colline, degli alberi, dei fiumi tra i quali Fenoglio era nato, aveva combattuto ed era vissuto. Soprattutto è presente la Cascina della Langa, il fulcro morale, sia negli Appunti che nel Partigiano: il luogo dove tutto sembra confluire nelle tradizioni degli antichi, dove Beppe, che diventerà Johnny, trova rifugio e salvezza. È la valle nascosta dove la vecchia sacerdotessa-maga della “dea madre” accoglie nel suo asilo i figli dispersi, braccati e in punto di morte e dove li nasconde e li rigenera. Cascina della Langa rappresenta il legame, il cordone ombelicale con la “madre terra”: da luogo fisico e reale  diviene mito, secondo un senso religioso ancestrale che  appare connaturato nell’autore.

Nel Partigiano la terra non è solamente la madre di Johnny e dei suoi amici, ma è la madre di tutti, anche dei nemici. Per questo a volte può generare terrore, apparire, come egli scrive «panica, totemica». Altre volte invece offre il conforto e il rifugio che il soldato non vorrebbe mai abbandonare. Altre volte ancora appare come una vergine violata e stuprata, quando i nemici se ne sono impadroniti. A volte vi si può scorgere una reale personificazione del territorio, come quando le colline tondeggiati sono chiamate «mammelloni»: questa non è certamente un’invenzione fenogliana, bensì in tutta la regione le colline tondeggianti sono chiamate in questo modo. Il termine indica una concezione popolare della natura, che potrebbe benissimo essere il ricordo di una tradizione antica, che aveva personificato tutti gli elementi naturali e li considerava parte della divinità stessa.

Troviamo, nel Partigiano Johnny, un episodio in cui questa concezione della terra è evidente in modo particolare. Johnny è in fuga e immaginando che i suoi amici, Pierre e Michele, siano stati uccisi, senza pensare, si dirige, per trovare rifugio e consolazione, a Cascina della Langa, dove trova non solo riparo ma anche gli amici sani e salvi. È questo il punto centrale del substrato possibilmente celtico del romanzo: un luogo nascosto, non facile da trovare, arcano nella sua atmosfera di antica immobilità. È il tempio della “grande dea”, servita da una sacerdotessa senza tempo, che vive sulla terra, della terra e per la terra. Allo stesso tempo, la vecchia padrona, nonostante le sue sgradevoli caratteristiche, ha in sé l’anima di tutte le madri del mondo a causa del suo legame con la “madre” primordiale.

In seguito si fa ancora più evidente il ruolo sacrale di sacerdotessa della “madre” attribuito alla vecchia contadina, quando, liberata dopo l’arresto, ritorna alla Cascina su un carro tirato da una coppia di buoi, accompagnato come in processione dai contadini, quasi un rito druidico in onore della magna mater, e insieme un’eco dei corteggi di Demetra e Cibele, tanto più che la vecchia, come queste antiche dee della fertilità, è sempre accompagnata da un animale potenzialmente feroce, una femmina di cane lupo. I fascisti, invece, i nemici che l’hanno presa prigioniera, la definiscono una strega, perché sono troppo lontani dal naturalismo di chi vive sulle colline. Oltre a non capirne la lingua, non comprendono neppure l’aura di sacralità che aleggia intorno a chi è sempre vissuto in contatto con la terra e non ha mai dimenticato la sua forza e la sua compassione. Tuttavia, in minima parte e senza capirne a fondo il significato, anche i nemici avvertono quanto di sacro e misterioso vi è attorno alla vecchia contadina, e, proprio per questo, oltre che per la loro chiusura mentale, la definiscono “strega”, perché questo è quanto scorgono in lei, una vecchia donna, che vive isolata dal resto del mondo, una persona diversa, una strega: onorata, invece, come una sacerdotessa, come la stessa “grande madre” dalla gente delle colline, che non ha mai perduto il legame con le proprie  origini e con la natura.

Quando, dopo aver visitato Alba ed essermi immersa con commozione e partecipazione nei luoghi in cui visse Beppe Fenoglio, presi la strada del ritorno, la nebbia cominciava ad aprirsi in alto e rimaneva densa e pesante solo sul fondo delle valli. Dai crinali degli alti colli nei dintorni di Mango, lo spettacolo era mozzafiato, anzi, breathtaking,  come egli avrebbe scritto. La pioggia accennava finalmente a cessare ed era ormai ridotta ad un’acquerugiola sottile. Il cielo non era più un insieme plumbeo di nuvole basse e compatte, ma un ribollente calderone di cumulonembi, neri, o grigi, o bianchi, in rapido accavallarsi. La terra brillava, umida e nera, e tutta la vegetazione scintillava, lucida e pulita, fresca e luminosa. Le valli, sul fondo, conservavano ancora bioccoli di nebbia, ma le colline si ergevano come rinate, scure, verdi, piene di vita nei loro anfratti scoscesi, simili a velluto per la ricchezza della vegetazione. Altrove le vigne allineavano i loro filari essenziali in perfetta simmetria: un inno al lavoro umano ed alla fertilità della terra. Altrove ancora, le colline si facevano soffici e morbide, tondeggianti, rese seriche dalla vegetazione vista in lontananza.

Mentre immobile contemplavo questo spettacolo senza tempo dall’alto di un crinale, che mi permetteva contemporaneamente la vista su due valli, mi venne in mente che, al di là di molti particolari nelle opere di Fenoglio che possono alludere alle antiche tradizioni, proprio in questa visione della terra si può trovare un parallelo con la concezione della natura che era propria delle antiche popolazioni del Piemonte. Infatti, in tutte le sue opere, egli ci offre un’interpretazione della terra che si riallaccia in spirito alle antiche tradizioni, filtrate attraverso secoli e secoli di repressioni e rivestimenti con fedi diverse. Nonostante le sovrastrutture, nei momenti di maggior pericolo, l’anima dell’uomo ritorna istintivamente ai suoi sentimenti primordiali e si rifugia in una visione naturalistica dell’esistenza.

Se si volesse dare delle opere di Fenoglio un’interpretazione psicoanalitica di indirizzo freudiano, si potrebbe dire che tutto comincia con il padre e finisce con il padre, questi prendendo via via le sembianze di un vero padre, come ne La malora, oppure dei vari capi partigiani, come Nemega, Lampus, o Nord, oppure di partigiani amici, come Michele o Pierre. Tutto sarebbe, in questo modo, ridotto ad un sentimento di amore-odio di stampo edipico, dove l’amore per la madre vive tra la gelosia nei confronti del padre ed il desiderio-orrore dell’incesto. Da parte mia, preferisco leggere le opere di questo grande scrittore tenendo presenti le tradizioni antiche della sua, e mia, terra.

Fenoglio racconta l’epopea della terra, e la terra è interpretata a volte liricamente, a volte drammaticamente, a volte in senso trascendente, a volte in senso immanente, come la “madre”, la “grande dea”, la datrice di vita e, a causa delle azioni dei suoi figli, l’apportatrice di morte. Gli uomini, i figli della “dea madre terra”, combattono l’uno contro l’altro in nome di ideologie astratte, che alla fine si traducono tutte nel desiderio di libertà. La libertà si identifica, per Johhny e per gli altri suoi fratelli letterari, nell’unione-vita con la “madre” universale, la “grande dea”, la terra. Johnny, per esempio, è un cittadino che, come lo stesso scrittore, non ha perduto il contatto fisico con la terra e la riconosce come la propria madre ancestrale. Questo bisogno di contatto fisico è particolarmente evidente nelle scene di battaglia, nella descrizione delle fughe, nei tentativi di nascondersi alla furia dei nemici in mezzo agli anfratti ed ai boschi delle colline. Si trovano descritti molto sovente i rittani: profonde, scoscese spaccature nel corpo delle colline, quasi sempre coperti di ricchissima vegetazione. Sul fondo dei rittani, quasi sempre, scorre un piccolo, ma impetuoso torrentello, che rende la discesa e l’attraversamento molto difficili, sovente pericolosi. Il rittano rappresenta l’ultimo rifugio, il luogo sacro, inaccessibile a chi abbia perso la capacità di contatto con la “terra madre”. Cercare rifugio in questo abisso significa, infatti, penetrare nel corpo stesso della terra, affidare la propria vita ad elementi che possono essere molto ostili per chi non sappia più riconoscerli come parti integranti della propria esistenza, ma che anche sanno essere benigni, pietosi, amorevoli con chi, invece, viva in armonia con la vita della terra.

Vi è nell’intera opera di Fenoglio un grande, sincero, primitivo amore per la terra: la “madre” offre riparo ai fuggiaschi, li copre con le sue fronde, impasta con il fango, che è il suo sangue, i loro volti e li mimetizza, assimilandoli alle sue stesse membra, inghiotte i suoi figli in anfratti profondi, proteggendoli, salvandoli, senza sentirsi violata, perché essi vivono all’unisono con la sua esistenza e le sue stagioni.

A questa simbiosi tra lo scrittore e la sua terra pensavo, mentre dal crinale dell’alta collina contemplavo le due valli, lucide per la pioggia, ormai quasi cessata, ed al fatto che l’unica figura femminile di grande rilievo nei romanzi di Fenoglio è proprio la terra: ora è la vergine, violata e stuprata dalle battaglie, ora è la madre, che offre il suo seno come rifugio e nutrimento per i suoi figli. Ora, invece, è simile alla Morrigain, che porta la morte, ma è pietosa, tuttavia, verso la povera, effimera umanità, e accoglie le spoglie dei figli nel suo ventre, con la promessa di una nuova, mutata vita, scandita dal ritmo delle stagioni, eterne, come la terra stessa.

L’unica donna reale che abbia un qualche peso nel Partigiano, ad esempio, è la vecchia della Cascina della Langa, e rappresenta la maga, l’ultima incarnazione della “grande dea” e la sua sacerdotessa. Altre figure femminili compaiono nella narrazione, naturalmente, madri, sorelle, innamorate, spose. Vi è Elda, ambigua adolescente, evanescente figurina dal sottile fascino perverso, giovane donna senza radici e senza ideali, che ha la sublime audacia di prostituirsi per poter offrire due pacchetti di sigarette a Johnny, che combatte per l’ideale di tutti, la libertà; ma Elda e le altre sono tutte figure marginali, vive solo un attimo nell’economia del racconto. Completamente diversa, invece, è la vecchia della Cascina della Langa: è una donna anziana, contadina da sempre, solitaria nel suo casale, a stretto contatto con la terra. Non ha fascino ma ha una maestà ed una dignità che tutti le riconoscono inconsciamente. Le genti delle colline le rendono omaggio come ad una regina e scorgono in lei, al di là della miseria umana, la personificazione della terra, perché è sempre vissuta in stretto contatto con essa. Si trovano in lei la nobiltà e la potenza della sacerdotessa della “grande dea”, di colei che conosce i misteri della natura e del tempo e dell’eterno ciclo di vita, morte e resurrezione.

Questi sono gli stessi ritmi naturali che, senza neppure esserne cosciente, Beppe Fenoglio conosceva  e che ha lasciato intuire ai suoi lettori.

Vienna, la rosa d’inverno, la santa al femminile e la donna semplicemente donna

luglio 9, 2009

Laura El-Mouelhy Mossino

  

  All’inizio dell’inverno arrivai a Vienna, la mia città del cuore, sotto una terribile bufera di neve, che obbligò l’aereo sul quale viaggiavo a volare in cerchio sull’aeroporto di Schwechat per quasi mezz’ora prima di poter atterrare. 

Recuperati i miei bagagli, composti quasi esclusivamente di libri, saltai su un taxi e andai a casa: la mia casa viennese, chiusa dall’inizio del mese di agosto, gelida e coperta di neve.

Quando vi giunsi, mi accolse un’atmosfera siberiana (o forse dovrei dire canadese). All’aperto il termometro segnava poco meno di venti gradi sotto zero e all’interno non si poteva notare una differenza di qualche importanza. Il mio piccolo giardino sembrava un asteroide dimenticato nelle ghiacciate profondità siderali. Neve, neve, neve, scintillante come cristallo, ma, nel mezzo di tutto quel bianco puro e perfetto, notai una macchia di colore vivissimo, tanto vivo da parere quasi irreale, come un pensiero profondo salito dagli abissi dell’anima. Una rosa, apparentemente appena sbocciata ed intensamente rossa, come una polla di sangue vivo, ancora fioriva nel giardino invernale: assurda, un’evocazione di estate e di calore, qualcosa di innaturale, qualcosa che sembrava dare una strana gioia, una sorta di mistica felicità.

O almeno così mi parve in quel momento. In effetti non vi era nulla di miracoloso in quel fiore fuori stagione. Non era null’altro che una rosa tardiva, preservata sul suo alto stelo dalla venuta improvvisa del freddo, vetrificata dal gelo in un’apparenza di eternità e che il primo giorno appena tiepido avrebbe distrutto. Ma io giungevo in quel momento dall’altra parte del mondo ed avevo viaggiato nove ore leggendo storie affascinanti ed umilianti di donne ritenute sante per motivi assurdi ed infurianti, che la mia mente e la mia coscienza respingevano con rabbia e con un impotente senso di frustrazione.

Per questo motivo la rosa d’inverno mi parve un simbolo del misticismo di tutte  queste creature,che vissero nel Medioevo una vita ai limiti dell’umano e del divino: una rosa rossa, la mistica rosa, emblema della ferita al costato del Cristo crocifisso, porta per raggiungere la perfezione attraverso la sofferenza, l’imitazione del dolore per la salvezza dell’umanità, cibo di cui nutrirsi per giungere alfine alla morte per inedia, perfetto modello d’amore verso l’uomo-dio e mezzo per ottenere la felicità eterna. 

Assurdo ed irrazionale: Gesù Cristo digiunò nel deserto per quaranta giorni, ci dice il Vangelo, per resistere alle tentazioni del maligno, ma anche moltiplicò i pani ed i pesci, in modo che i suoi seguaci, uomini e donne comuni, non soffrissero la fame.

Perché quindi queste donne scelsero il digiuno come mezzo di base per raggiungere la santità e la perfezione? Questa scelta non fu certamente, secondo le Scritture, una semplice imitazione della vita del Salvatore, quindi la chiave per capire il motivo di questo strano ed aberrante comportamento deve, per forza, risiedere in altro. La motivazione di questa scelta sta proprio, forse, nel fatto che le sante non erano donne comuni e di conseguenza cercarono un modo non comune per uscire dall’anonimato ed ottenere una qualche credibilità all’interno di una società che negava loro qualsiasi diritto. In effetti, attraverso il digiuno e la santità che ne conseguiva, una volta che fosse appurata, le donne, almeno alcune donne, poterono seguire una vita diversa da quella che era intesa per loro, vale a dire una vita di obbedienza ai maschi della loro famiglia o della loro cerchia sociale, senza altri doveri che quelli di concepire e mettere al mondo figli, possibilmente maschi, e vivere vegetando, senza che il loro parere, i loro desideri e le loro opinioni avessero mai un qualche peso nella vita sociale. Attraverso una santità riconosciuta, invece, alcune di loro giunsero fino a farsi ascoltare da papi ed imperatori: un grande successo, quindi, ma ottenuto a prezzo della negazione della loro femminilità terrena, che stemperarono in una femminilità mistica.

Come si sia potuti giungere ad una simile aberrazione rimane per me un mistero assoluto. Se guardiamo lontano nella storia della spiritualità umana, possiamo vedere che assolutamente tutte le religioni primitive (e con primitivo non intendo sottosviluppato ma piuttosto primigenio) considerarono l’essere creatore come femminile, secondo logica umana, si potrebbe dire, poiché la madre sembrava essere l’origine stessa della vita. La conoscenza del concepimento sessuale fu acquisita molti millenni dopo l’inizio della civiltà ed ancora oggi in alcune remote zone dell’Australia non si mette in relazione l’atto sessuale con la nascita di un nuovo essere, ma si ritiene che una donna cocepisca quando, passando vicino ad un luogo sacro, l’anima di un defunto entra nel suo coprpo. Questa idea dell’origine della vita dal femminile fu la base del culto delle Dee Madri, le Matronae, come furono chiamate in latino, che per lungo tempo ebbero onori in un mondo basato sul femminile, dando origine a molteplici civiltà matrilineari, nelle quali le donne avevano un potere a volte maggiore, a volte pari a quello degli uomini. Possiamo vedere esempi di questo fatto nelle mitologie di civiltà come quella assiro-babilonese, egizia, ebrea pre-biblica, greca prima dell’invasione ariana, in tutte le civiltà dellAsia Minore e, se queste sono troppo lontane nel tempo per poter avere una qualche influenza sui nostri tempi, nella civiltà celtica, molto più vicina ai giorni nostri, anche se in modo relativo.

Tutte le antiche civiltà che ho menzionato sopra e molte altre ancora, che però potrebbero non avere una grande influenza sulla nostra moderna società basata essenzialmente su una filosofia giudeo-cristiana, basarono la loro fede ed i loro culti sull’esistenza di una Dea Madre, onnipotente, datrice di vita e di morte, dicotoma, come la greca Gea, o l’asiatica Afrodite Ctonia, o l’egizia Iside, solo per menzionarne alcune.

Da tempo immemorabile la Dea Madre fu rappresentata da statuette steatopigie (uno degli esempi più antichi è la famosissima Venere di Willendorf, che è stata datata a circa trentamila anni fa, o, sempre per restare in ambito europeo, la Mater di Dolmi Vestonice, vecchia di soli venticinquemila anni). Queste immagini rappresentano la donna con caratteri sessuali enormemente accentuati ed esagerati, con seni enormi e fianchi e natiche possenti, e in alcuni casi con un’enorme vulva. Questo tipo di rappresentazione non intendeva per niente porre l’accento sui caratteri sessuali femminili, ma piuttosto rappresentava una specie di invocazione di fertilità per la vita in generale: esasperando i caratteri tipici della donna feconda, si cercava di propiziare la dea affinché donasse la sua grazia a tutta quanta la natura. Una specie di formula magica per la continuazione della vita. Non sembra possibile non mezionare ancora la piccola deliziosa statuetta rappresentante la Grande Dea e chiamata comunemente la Dea-serpente (e non dimentichiamo che il serpente è un simbolo ctonio e rappresenta la terra) che fu ritrovata negli scavi di Cnosso, nell’isola di Creta, sede di una delle più antiche civiltà a base matriarcale del mediterraneo, che alcuni vorrebbero addirittura definire di origine atlantidea. La dea-serpente di Cnosso, alta solamente una trentina di centimetri, rappresenta una donna, naturalmente, ma provenendo da una società estremamente più evoluta rispetto a quelle dell’Europa centrale neolitica, ne evidenzia i caratteri sessuali in un modo molto meno crudo: abbiamo quindi la rappresentazione di una donna aggraziata, vestita con una lunga gonna aderentissima sui fianchi rotondi e con un corpetto che evidenzia i seni fiorenti. La dea ha un viso molto dolce e sulle labbra un sorriso indefinito e seducente, come la Monna Lisa di Leonardo, anche se il pittore non poteva sicuramente conoscere la statuetta, ed abbraccia ed è abbracciata da due serpenti. Tutti i simboli della vita sono presenti, ma senza esagerazioni troppo vistose, anzi, in parte sono lasciati all’intuizione di chi guarda.

 Una cosa risulta immediatamente evidente da queste rappresentazioni delle Matronae: l’idea del digiuno come mezzo per ottenere la santità religiosa o un qualche potere terreno non esisteva assolutamente nelle civiltà antiche. Il concetto di digiuno esisteva naturalmente anche nell’antichità, ma era ristretto a determinati riti usati in occasioni specifiche. Per esempio, durante la rappresentazione delle vicende di Proserpina esisteva un rituale di astensione dal cibo, così come era anche previsto nei riti orfici, ma era solamente la rappresentazione della discesa agli inferi, della morte ciclica della natura, non era un sistema di vita e non tendeva ad ottenere una comunione particolare con la divinità e tanto meno poteva condurre ad un maggiore potere sociale e religioso.

Nella più recente società celtica, diffusa in tutta l’Europa continentale, il digiuno veniva paraticato dalla casta sacerdotale dei Druidi, sacerdoti e sacerdotesse, prima dei riti di divinazione per mezzo dell’acqua e della luce della luna, ed era un digiuno relativo, in quanto i veggenti dovevano cibarsi di un fungo che propiziava la visione del futuro e di null’altro. Oggi si ritiene che questo tipo di funghi contenesse una sostanza allucinogena. Anche presso i Celti il digiuno come forma di vita e di religiosità non trovava posto. 

Per qualche motivo ancora oscuro, ad un certo punto nella storia che è estremamente difficile precisare, la socità da matrilineare divenne patrilineare. Il cambiamento, naturalmente, non fu istantaneo e tantomeno contemporaneo in tutte le diverse regioni, tuttavia fu all’inizio solo una tendenza che divenne sempre più importante, fino ad eclissare completamente, o quasi, l’organizzazione sociale precedente. Si potrebbe, forse, dire che il primo esempio di società totalmente patriarcale ci è fornito dalla Bibbia e sembrerebbe, quindi, coincidere con l’affermarsi di una religione rivelata. L’Ebraismo come è rappresentato nella Bibbia soppiantò completamente ed in modo assolutamente rivoluzionario l’antica società matriarcale semitica esistente nella regione e non ne restarono tracce, se non la trasmissione della religione da parte della madre, che sopravvive fino ai giorni nostri.

In altre regioni, invece, contemporaneamente al fiorire delle civiltà del bronzo, che popoli di origine ariana introdussero in Europa e nel bacino del Mediterraneo, e che furono società eminentemente patriarcali, continuarono ad esistere popolazioni che vivevano secondo una società matrilineare, fatto attestato per esempio dall’Iliade. Nel poema di Omero, infatti, possiamo osservare due distinti tipi di società: uno nuovo, rappresentato dagli Achei, di origine ariana, che da poco tempo, sempre parlando in modo molto relativo, avevano invaso e conquistato la Grecia continentale, le isole vicine alla costa e si stavano, all’epoca della guerra di Troia, spandendo verso le coste asiatiche del mediterraneo, ed uno molto più antico, forse di origine autoctona, forse asiatica, in via ormai di decadenza. Gli Achei dell’Iliade sono una società patriarcale, fatto molto ben rappresentato nel poema, che non ci offre alcuna immagine femminile nel campo acheo, se non un’irascibile e vendicativa Atena, una frustrata Hera, e due giovani donne, Criseide e Briseide, il cui possesso è oggetto di discordia tra i capi degli Achei. Penso che la parola possesso riesca a spiegare ogni cosa. Le altre immagini femminili sono magari molto poetiche, ma non sono altro che questo, appunto: immagini sfocate e lontane di donne, dolci, addolorate, fedeli e, particolare molto importante, chiuse nel gineceo, ad attendere pazientemente il ritorno dei loro signori. E padroni.

In campo troiano, invece, esistono numerosissime e vivaci rappresentazioni di donne, apparentemente libere e ascoltate dagli uomini della città. Prima fra tutte Andromaca, moglie di Ettore, che alle Porte Scee in una scena difficile da dimenticare, supplica l’eroe di non combattere contro Achille. Andromaca è innamorata del marito, ma lo supplica in nome non solo dell’amore nei confronti suoi e del figlio, ma anche, e mi sembra estremamente importante, in nome della sua libertà: senza Ettore, infatti, nella società achea per lei, come per tutte le altre donne esiste solo una vita riflessa attraverso quella degli uomini. Altre figure femminili in campo troiano sono, ad esempio, Ecuba e Cassandra: Ecuba è la vecchia regina del suo popolo, madre dei cinquanta figli di Priamo, anche se forse non tutti generati da lei. Ecuba rappresenta la Madre, quindi è la genitrice di tutto il suo popolo. Cassandra, invece, è la profetessa, maledetta da un dio maschile, ma sembrerebbe originariamente collegata al culto del serpente, una divinità ctonia legata quindi alla terra ed alla Dea Madre. I tempi cambiano, perciò la sacerdotessa della Madre non è più creduta dal suo popolo, che per questo motivo verrà annientato.

Ancora un particolare per mettere in evidenza il sussistere di due tipi di civiltà diverse nello stesso momento storico: le Amazzoni, popolo guerriero, forse di origine asiatica, sono alleate di Troia e combattono contro gli invasori Achei. Sembrano dimostrare la lotta delle società matriarcali contro quelle patriarcali: ahimé, Troia verrà distrutta e con lei morirà l’ultima vera società matrilineare del mediterraneo.

La Grecia classica relegò le donne nel gineceo e solo in qualche remota isola rimase, quasi sino al periodo classico, una leggera eco della società primitiva, come ad esempio a Lesbo, dove la divina Saffo, incoronata di viole, poté organizzare una scuola in modo quasi libero: tuttavia fu una scuola per sole ragazze…

Lo stesso fece la società romana classica, anche se inizialmente ci viene rappresentata, almeno dalle leggende, come una società matrilineare. Enea sposa una principessa locale per poter regnare sul Lazio; Romolo e Remo nascono da una sacerdotessa di Vesta, una tipica dea-madre, e sono allattati dalla lupa, un’immagine allotropica della dea-madre. Però, man mano che aumentava l’importanza di Roma politicamente ed economicamente, altrettanto diminuiva al suo interno lo spazio concesso alle donne, tanto che se ancora vediamo in prima epoca repubblicana una Cornelia, con Cesare ed in seguito con l’impero troveremo figure femminili come la moglie dello stesso Cesare, al di sopra di ogni sospetto, vale a dire modesta e chiusa in casa, oppure cortigiane lodate, esaltate, amate e, in fondo, disprezzate e possedute come oggetti, come la Lesbia-Clodia di Catullo.

Tutto questo è stato chiamato evoluzione sociale e progresso.

Contemporaneamente al fiorire della civilta romana, si ebbe, nell’Italia del Nord ed in gran parte dell’Europa non mediterranea il fiorire della civiltà celtica, che fu una via dimezzo tra una società matrilineare ed una patrilineare. Lo fu in un modo del tutto particolare e lasciò una grande eredità ai popoli che seguirono, oltre a destare una grande meraviglia nella società romana, come ci è tramandato da alcuni grandi scrittori dell’epoca.

Cesare nel suo De bello gallico parla con abbondanza di particolari dei Celti e della loro società ed in modo particolare della loro casta sacerdotale: i Druidi. Druidi potevano essere sia uomini che donne ed erano tenuti in altissima considerazione dalla popolazione, erano consiglieri di re e capi tribù ed i loro suggerimenti erano sempre ascoltati e tenuti nel massimo onore. Cesare racconta anche come la sovranità fosse trasmessa per via di madre, come un dono della Grande Dea, e come un conquistatore, per poter divenire capo o re della tribà conquistata, dovesse sposare la figlia del capo precedente. Stranamente questo modo di trasmettere la sovranità per via femminile è qualcosa che tutti conosciamo a causa delle favole che ci vengono rancontate da bambini: in queste, infatti, l’eroe sposa sempre una bella principessa, figlia del re e diviene a sua volta re per diritto trasmesso dalla sposa. Molto strano e… molto celtico.

Cornelio Tacito nell’Agricola descrive le donne dei Celti e di loro dice che non erano in alcun modo escluse dalle posizioni di potere e basti qui dare l’esempio di Budicca, chiamata dai Romani Boadicea, che per vendicare la morte del marito e lo stupro subito dalle due figlie adolescenti ad opera dei soldati romani, riunì sotto il suo comando militare la maggiornaza delle tribù britanniche e dopo alcuni grandi successi militari iniziali fu infine sconfitta dalle legioni romane solo a prezzo di grandi perdite e fatiche.

Donne che regnavano, donne che consigliavano i regnanti, donne che combattevano: questa era la realtà delle società celtica pagana, per la quale l’essenza dell’universo e la potenza di creazione che esso comprendeva erano femminili. Forse questo fu il motivo per cui, quando il Cristianesimo si cominciò a diffondere, i Celti immediatamente ne accettarono almeno una parte, quella riferentesi a Maria, genitrice del Salvatore, che considerarono alla stregua di una Mater quindi, e la figura stessa di Cristo, visto come un saggio druido. E questo, forse, fu l’inizio della fine per l’ultima società a struttura matrilineare in Europa.

Il Cristianesimo si diffuse in tutta Europa e permeò completamente tutte le strutture sociali precedenti, cercando di annullare quanto esisteva da tempi immemorabili, e, quando questo non fu possibile, inglobando culti e credenze pagane in forme di sincretismo che permangono ancora oggi. Contemporaneamente si diffuse in tutta Europa anche il modello di società patrilineare tipico della cultura romana e di quella ebraica, che si fusero insieme in un nuovo tipo di cultura che fu chiamato giudeo-cristiano.

Questa nuova cultura divenne ben presto una cultura egemone e introdusse non solo una società patriarcale, ma, cosa ben più grave e ricca di conseguenze, provocò e favorì una vera e propria demonizzazione della donna, causa della caduta dell’uomo (inteso come maschio), sia come istigatrice al peccato originale, sia come fonte di lussuria. Che il maschio umano non fosse assolutamente capace di resistere agli stimoli della lussuria ed alle tentazioni offerte dalla donna non fu mai considerato come un peccato o almeno una grave mancanza: ma si sa, la carne dell’uomo è debole… E gli uomini, i maschi, si crogiolarono in questa loro debolezza e ne incolparono la donna.

Nei secoli del Medioevo la posizione femminile era qualcosa di veramente triste. La nascita di una figlia femmina era vista quasi sempre come una vera e propria disgrazia e una rovina finanziaria. Era infatto ormai invalsa l’abitudine di pagare una dote all’uomo che avrebbe sposato la figlia, come se l’uomo dovesse essere retribuito in qualche modo del danno di prendere moglie! Vorrei a questo proposito menzionare il fatto che nel Corano, la cui stesura data al VII seccolo dopo cristo, il profeta Mohammed decretò che dovesse essere il marito a pagare una dote sia ai genitori della moglie, quasi come un indennizo per la perdita di una figlia, sia alla sposa stessa, per garantire in questo modo che la donna possedesse una ricchezza, magari relativa, ma comunque solo sua. Questa dote pagata alla moglie non doveva assolutamente essere restituita in caso di divorzio, ma restava di proprietà personale della moglie. Nella società cristiana fino all’inizio del secolo scorso una moglie non poteva ricevere un’eredità senza il consenso del marito! Questa era però considerata una società progredita.

Ritorniamo al Medioevo. Le donne non potevano occupare cariche pubbliche, potevano studiare, ma non tutte avevano i mezzi per farlo, vivevano una vita relativamente libera mentre erano bambine, ma al momento della pubertà e dell’adolescenza ogni libertà finiva, ogni permesso di “fare” veniva revocato e sospeso e la povera ragazza, oltre ai turbamenti normali dell’età, si trovava costretta ad affrontare una vita di reclusione, con aspirazioni limitate alla conduzione della casa o alla cucina, o, nel caso di una giovane ricca e nobile, al ricamo o alla lettura di opere adatte alle donne, cioè limitata a interessi per nulla affascinanti o di qualche importanza intellettuale.

La prospettiva che tutte le giovani ragazze si trovavano a confrontare era quella del matrimonio: una specie di atto di vendita tra il padre ed il marito, dove chi vendeva era anche tenuto a pagare il compratore, oltre che a consegnargli la merce. Perché di merce effettivamente si trattava: la ragazza non era normalmente consultata, e anche se lo era, era solamente proforma e in realtà non aveva nessuna possibilità di opporsi alle decisioni dei genitori. Le restava solo la rassegnazione e la speranza di non morire al primo parto, cosa che purtroppo avveniva molto di frequente.

Questa era la situazione disperata che le giovani donne si trovavano ad affrontare, ma ancora bisogna aggiungere la continua denigrazione a cui tutte le donne erano sottoposte di continuo: l’assurda denigrazione che solo qualche anno più tardi condurrà alla stesura e pubblicazione del Malleus maleficarum, dove maleficarum sarebbe potuto essere maleficorum, ma invece fu volutamente maleficarum. Le donne sono in connivenza con il demonio, ergo sono esseri demoniaci per natura e gli uomini che vogliono raggiungere la perfezione e la salvezza eterna devono astenersi dall’avere rapporti con femmine, dimenticando, naturalmente, di essere nati da una madre, ma poi, si sa, le madri sono diverse, è il sesso che è peccaminoso. La logica, qui, mi sfugge.

Le nostre povere ragazze del Medioevo avevano praticamente una sola via per salvarsi dalla catena matrimonio-gravidanza-morte ed era quella di sviluppare una vocazione religiosa abbastanza precoce da poter essere opposta ad un matrimonio. L’opposizione in nome di Dio poteva avere un qualche effetto: quasi sempre la chiamata di Dio poteva evitare di convolare a nozze e permetteva alla poveretta di rinchiudersi in un convento oppure di vivere la sua vita come una laica religiosa nella sua propria casa, occupandosi di carità, di beneficenza, a volte anche di studio e di teologia. Se non riusciva ad opporre una resistenza abbastanza forte, era magari costretta a sposarsi, ma riusciva talvolta, con mezzi che io definirei ricatti morali e fisici, a convincere il marito a vivere in castità, dal momento che rimanere vergini era considerato un fatto essenziale per la santità. Se non riusciva ad impedire la consumazione del matrimonio, doveva pazientare fino al momento di divenire vedova per poter vivere castamente, dedicata all’amore di Cristo e del prossimo.

Ora, io detesto fare del sarcasmo e dell’ironia a spese delle sofferenze di un certo numero di povere donne, costrette dai tempi e dalla società a cercare un modo di vita diverso da quello previsto per loro e sovente imposto anche con la forza: mi chiedo tuttavia come posso vedere delle vere vocazioni in questi modi di scegliere una vita religiosa, e più ancora mi domando dove sia il valore di una vita di castità scelta per sfuggire alla paura della morte per parto. Ancora mi chiedo dove sia l’amore di Dio e delle sue creature, quando una donna rifiuta ogni contatto con il marito, o, non rifiutandolo, attende che questi muoia per vivere la sua vita dedicata alla divinità. Ovviamente qualcosa mi sfugge in questa particolare sequenza di azioni.

Molte donne reputate sante, definite a volte mistiche, a volte visionarie, ma sempre ascetiche, scelsero la vita religiosa ad una giovane età e dimostrarono fin da bambine la loro santità in divenire attraverso digiuni, punizioni corporali autoinflitte, capacità di sopportazione del dolore, e grazie a queste evidenze si guadagnarono la possibilità di divenire suore, o recluse di qualche genere, o almeno di vivere una vita di convinzioni religiose come laiche. Moltissime sono le donne ritenute sante nel periodo del Basso e Alto Medioevoe e, per quanto sempre in numero inferiore ai santi maschi, formano la maggior parte dei santi divenuti tali per una completa, o quasi, astinenza dal cibo. Questa cosa mi fa letteralmente inorridire. Non solo: mi fa veramente infuriare, perché lo interpreto come odio verso se stesse. Mi sembra che non sia null’altro che desiderio di umiliazione, non tanto dovuto, o almeno non solo, ad un immenso amore per Dio, ma anche inteso come un modo di adeguarsi alla diffusa opinione sulla debolezza, incapacità e inadeguatezza delle donne, secondo quanto decretato, purtroppo, anche da Santa Madre Chiesa.  Insomma, mi pare un modo di ammettere che sì, effettivamente le donne sono esseri deboli ed imperfetti, quindi vanno corretti e redenti per mezzo delle sofferenze più atroci.

Però qualcosa di diverso emerge nel comportameneto di queste donne e dalle loro parole, e adesso cercherò di mettere in chiaro prima di tutto per me stessa quello che trovo interssante e che allo stesso tempo mi disturba profondamente.

Prima di tutto il digiuno protratto fino alla morte. D’accordo: può esserci un motivo medico per questo, come un cancro, allora ovviamente non conosciuto, quindi molteplici ragioni per non tollerare il cibo. Alcune di queste sante donne ammettono che mangiare o bere procura loro dei dolori terribili, quindi di qui viene, o potrebbe venire, la decisione di non nutrirsi. Queste non accettano che si dia loro il merito di un’azione di cui non sono veramente responsabili. Questa però è una piccola minoranza di tutte le donne digiunanti dell’epoca.

La stragrande maggioranza si impone il digiuno per potersi cibare solo dell’Eucarestia e diventare il corpo stesso di Cristo attraverso l’ingestione di questo solo cibo. Questo diventare il corpo divino è inteso in senso letterale. Sono d’accordo che la dottrina cristiana della transustanziazione può facilmente portare a questa conclusione, ma che dire di quelle donne che effettivamente, e venne accettato come verità dalla Chiesa del tempo, avvertirono, ingerendo l’ostia consacrata, il gusto del sangue nella bocca e chiamarono questo un miracolo? Un miracolo? Forse! Che sfiora, però, il cannibalismo e mi ricorda il pasto rituale in cui il totem stesso è il cibo, come descritto da Freud in Totem e tabù.

Molte di queste sante donne, e lo dico questa volta in modo non ironico, digiunarono quasi tutta la loro vita, punirono i loro corpi ed apparentemente odiarono tutta la parte fisica della vita umana. Apparentemente, perché se esaminiamo la loro vita e le loro parole in profondità, possiamo scoprire che realmente cercarono solo di sotituire una sessualità, che era loro imposta, con una che fosse una loro libera scelta. Un diritto di tutte le donne, sostengo io, come sostenevano le antiche società matrilineari, ma un diritto che era negato dalla società giudeo-cristiana, strettamente maschilista nel Medioevo. Così le donne che vi riuscirono cercarono di vivere la loro sessualità in modo libero, ma all’interno di una struttura che lo permettesse loro. E questa, naturalmente, fu la Chiesa, che forse, almeno in quell’epoca, non si rese assolutamente conto di quanto rivoluzionaria fosse la concezione di quelle poverette, che adoravano in Cristo uno sposo in carne ed ossa, corpo e anima, che si cibavano di Lui e che dall’antropofago pasto divino erano appagate e consolate. Non sono rari gli esempi di esperienze mistiche che rivelano una vera e propria esaltazione sessuale, che a volte si veste di sfumature assolutamente erotiche e talvolta omosessuali. Un esempio è la donna, in digiuno da molti giorni, niente cibo e soprattutto niente acqua, che in un’allucinazione viene nutrita, come dal seno materno, dalla piaga al costato del Cristo, ricevendone gioia e nutrimento.

Quasi tutte queste donne si videro come spose, in senso letterale, di Cristo, che sposarono attraveso l’Eucarestia, oppure in sogno con un anello, come una vera cerimonia nuziale, per arrivare fino all’assurdo di chi sposò Cristo ricevendo un anello fatto con la pelle del prepuzio di Gesù, tagliatagli durante la circoncisione.

In questo caso di nuovo mi sfugge il nesso logico: con una certa difficltà, lo ammetto, tuttavia riesco a capire una forma di amore mistico tale da convincere qualcuno di essere materialmente la sposa di Dio, divenuta tale per mezzo di un sacramento, terreno o celeste, ma non posso assolutamente capire come qualcuno possa immaginare di ricevere come anello nuziale la pelle tagliata durante la circoncisione e soprattutto perché pensi, in primo luogo, a questo per nulla importante brandello di cute. A meno che la fisicalità dell’amore di queste donne fosse molto più grande di quanto la Chiesa abbia pensato, ed esse si siano in pratica lasciate andare ad un amore totalmente umano, il cui oggetto, però, era la divinità.

Effettivamente, a ben pensarci, tutto porterebbe, o potrebbe portare, ad una conclusione di questo genere: una santa scrisse che in una sua visione Gesù le disse che la sua bocca aveva il gusto delle rose ed il suo corpo quello delle viole; che la chiamò “suo tenero dolce come il miele amore” ed aggiunse che Cristo le assicurò che si appartenevano a vicenda. Queste non sono parole per un amore divino, almeno non sono solamente per un amore divino, ma possono allo stesso modo essere usate per una relazione del tutto terrena. Sembrerebbe, quindi, che le sante medioevale, negatesi  ad una vita umana in senso comune per non essere costrette a seguire le regole prefissate per tutte le donne, abbiano sostituito questa con un’esistenza di esperienze vissute nella mente, condite forse di allucinazioni, ma comunque strettamente legate al valore fisico sia della loro persona umana che della persona umana in cui Dio si era incarnato. Il culto del corpo di Cristo, visto a volte come un corpo femminile che procrea la Chiesa, è al centro della religiosità, che oserei definire fisicità, delle sante medioevali, che solo apparentemente hanno rinunciato alla loro prerogativa terrena di essere spose e madri, ma si sono in realtà riservate il diritto di essere tali. Secondo il loro volere ed il loro modo, nell’immaginazione e nelle allucinazioni indotte dal digiuno, dall’astinenza e dalla sofferenza.

Benissimo: le sante hanno riconquistato per se stesse un diritto che la società negava loro, cioè vivere la loro sessualità, il loro corpo, come desideravano e quando lo desideravano. Fin qui, riesco ancora a capire. Ma perché tormentare e distruggere il proprio corpo, avvelenarlo bevendo pous da ferite infette, mangiare pidocchi e scaglie cadute dalla pelle dei lebbrosi, negandosi ogni altro cibo degno di tale nome, perché invece di cercare di curare le malattie procurarsele? Odio verso se stesse? Odio verso la società, che imponeva loro ruoli forzati e prestabiliti? Anche se un apparente eccesso di bontà ed amore per il prossimo, a mio parere, possono dimostrare disprezzo e scorno, tuttavia non credo che questo possa essere il caso delle sante medievali.

Credo che veramente avessero un grande amore per tutta l’umanità, che la considerassero come redenta da Cristo, secondo il dogma della Chiesa, attraverso le sofferenze da Lui patite sulla croce, e che nella loro mente contorta e allucinata il procurarsi sofferenze volontariamente fosse un modo per giungere alla perfezione, sopportando con rassegnazione la stessa sofferenza che Cristo aveva sopportato per salvare l’umanità intera. Pensiero non del tutto illogico, che tuttavia rappresenta, a mio avviso, un terribile peccato d’orgoglio. Dio non mi ha madato dolori e punizioni a sufficienza, sembrano proclamare le nostre sante donne, quindi io me ne procuro in abbondanza, in modo che attraverso queste sofferenze e dolori il mio corpo possa divenire un tutt’uno con il corpo del Salvatore. Pensiero basato su un veramente enorme orgoglio ed un’ancora più illimitata concezione del proprio ego.

Per quanto posso vedere, dunque, due modi erano aperti ai mistici per ottenere l’unione con Dio: l’Eucarestia, cioè cibarsi del corpo e del sangue di Dio, e unicamente di questo, e a poco a poco trasformarsi nella stessa sostanza della divinità; oppure attraverso la sofferenza imposta al proprio corpo diventare un’unica cosa con il corpo martoriato del Salvatore.

Forse la mia è un’eresia da agnostica alla continua ricerca di un Dio giusto, logico e soprattutto naturale, ma non è questo desiderio di divinità e di unione con Dio lo stesso peccato che cacciò, secondo il racconto biblico, Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre? E se è effettivamente così, perché la Chiesa non scorse il pericolo dell’orgoglio in questo modo di vivere il proprio sentimento religioso?

Domande senza risposte.

Alcune risposte, tuttavia, credo di averle trovate e riguardano soprattutto la concezione generale che si ha del Medioevo per quanto riguarda la vita religiosa ed il sentimento religioso. Si tende comunemente a pensare che il Medioevo sia stata un’ epoca nella quale ci si occupava solamente della vita futura dopo la morte, un’era in cui non aveva importanza il genere di vita che il corpo terreno viveva, purché la salvezza nell’aldilà fosse assicurata. Insomma, un’epoca di puri mistici idealisti, tutti dediti all’introspezione ed alla salvezza eterna. Nulla di più falso.

E’ vero che la gente, laici ed ecclesiastici, ricercava il modo più sicuro per salvarsi l’anima, ma lo faceva per lo più attraverso il corpo, tentando di raggiungere una spiritualità eccellente attraverso una fisicalità molto terrena e molto grafica, se così si può dire. Per questo Dio Padre ottiene gli onori della divinità, è obbedito e riverito, ma amato ed adorato è il Cristo, l’uomo-Dio, che può essere graficamente rappresentato simile a noi stessi, a volte addirittura sessualmente complementare.

Esiste nel Medioevo, a mio parere, il senso di una sessualità sublimata, rivolta invece che ad un oggetto terreno ad uno divino, ma sempre di sessualità e di corporeità si tratta, di amore assolutamente umano, con tutte le sue manifestazioni e le sue espressioni, senonché viene risolto nell’allucinazione e nell’immaginario.

Resta da vedere se queste forme di ascetismo medioevale femminile non abbiano delle sfumature patologiche di misoginia, interiorizzata da parte delle donne stesse, e se i digiuni protratti non possano essere sintomi di disagi psichici piuttosto che una scelta cosciente di vita: una specie di santa follia, per evitare di sottomettersi a decisioni prese da altri. Personalmente penso che una componente patologica sia quasi sempre presente in manifestazioni ascetiche di tale importanza e naturalmente in queste patologie possono essere presenti condizioni fisiche reali e, credo più sovente, condizioni psichiche alterate: qualunque sia però l’origine del digiuno, bisogna convenire che durante tutto il Medioevo le donne usarono il cibo per manipolare la loro fisicalità e ottenere in questo modo la considerazione, l’ammirazione e l’approvazione degli organi della chiesa ufficiale. Va anche ricordato che, pur affamando se stesse fino alla morte, tuttavia queste creature usarono il cibo a beneficio dei loro contemporanei poveri, quando essere poveri poteva significare la morte per fame. Esse aiutarono e cucinarono e distribuirono cibo a chi ne aveva bisogno, senza mai cibare se stesse: Dio solo forse sa il vero perché.

Sono da ammirare o da esecrare o solamente da compatire? Un poco ognuna di queste cose.

Le ammiro perché, comunque, compirono del bene ed aiutarono gli altri. Le ammiro anche perché in una società del tutto maschilista, che non permetteva alle donne nulla, riuscirono ad ottenere una qualche libertà ed a seguire il loro volere, senza piegarsi a niente, se non al volere di Dio, con il quale tentavano di fondersi ed identificarsi.

Le biasimo perché dal mio punto di vista peccarono di illimitato orgoglio, ma ancora di più perché, ponendosi tanto al di fuori dei normali schemi femminili, purtroppo aumentarono ancora di più la misoginia della società, anche se tutti furono costretti ad ammirarle, quella misoginia che, latente da sempre, divenne poi dilagante con l’Inquisizione e la famigerata caccia alle streghe. Si innalzarono per un momento al di sopra di tutto il resto dell’umanità, maschile e femminile, e, passato il loro momento, si tornò a vedere in ogni donna che vivesse al di fuori degli schemi prefissati la diversità e furono bruciate sui roghi come streghe.

Le compatisco, veramente le compatisco, perché vissero in una società che aveva pervertito l’idea del sesso e che di un atto naturale, origine della vita per tutto e tutti, aveva fatto un peccato, anzi, il più grande dei peccati. Le compatisco perché dovettero, per trovare il modo di vivere secondo il loro volere e la loro natura, negare questa stessa natura e considerarsi spose immaginarie di un dio per non doversi assoggettare al volere di altri.

Tutto questo quando la civiltà era nata nell’altro modo.

Se mi è concesso vorrei terminare questo lavoro citando una delle mie studentesse: questa ragazza ha vent’anni ed ha seguito il mio corso di italiano avanzato il semestre passato. Ho corretto il suo esame finale a Vienna, proprio prima di scrivere queste pagine e alcune parole da lei scritte mi hanno profondamente colpita e fatto pensare che, forse, tutto il mio femminismo, agnosticismo, e la mia logica e razionalità, davanti alla vera fede non valgono nulla. Questa ragazza ha scritto:

“Camminando in una cattedrale sento come sono proprio piccola; mi sento suggestionata dalla divinità e, finalmente, accetto che ho bisogno di Dio. Vedo Dio in tutto, nella natura, come San Francesco, nell’amore e nel dolore, come gli scrittori del Medio Evo.”

A me non è mai successo di entrare in una cattedrale e ricevere un’impressione di questo genere, però ho camminato in un bosco, sotto alberi antichi e saggi e credo per un attimo di aver toccato anch’io l’essenza della divinità.

Senza digiunare, tuttavia!

 

BIBLIOGRAFIA

 

 Berresford Elli, P.             Celtic Women. London: Constable, 1995

 

Walker Bynum, C.            Holy Feast and Holy Fast. University of California

                                      Press, 1987.

 

—                                  Fragmentation and Redemption. New York: Zone

                                      Books, 1991.

 

 

(16 dicembre 2007 LA STAMPA Commento al testo de “La rosa d’inverno)

Rivoli, devozione ed eros nelle lettere al medico santone

Indagato il primario di fisiatria. Considerava le ragazze “spose mistiche”

MARCO ACCOSSATO, CLAUDIO LAUGERI

TORINO
Primario di fisiatria e animatore del «Gruppo eucaristico Torino». Corpo e anima. Cura del corpo e nutrimento dell’anima. Ma per la procura, il dottor Albino Consoli è soltanto un «indagato»: i reati ipotizzati dal pm Marcello Maresca sono di violenza sessuale, circonvenzione d’incapace e abuso della professione di psicoterapeuta. L’indagine del magistrato è coperta dal più fitto riserbo. Ieri mattina, però, il pm è stato costretto a venire allo scoperto: ha disposto una perquisizione a casa, nell’ufficio in ospedale a Rivoli e nello studio del medico. Il dottor Consoli è arrivato in reparto alle 11,50 ed è andato via un’ora dopo, accompagnato da tre carabinieri in borghese del reparto operativo di Torino. I militari hanno cercato nei cassetti e nel computer documentazione a sostegno delle ipotesi della procura. «Non mi hanno detto esattamente che cosa cercassero, comunque hanno trovato nulla» ha confermato il medico al termine della perquisizione. E le ipotesi d’accusa della procura? «Sono tutte falsità. Non dico altro. Fra qualche tempo potrò dare io ai giornali notizie molto interessanti su questa storia». «Le posso confermare soltanto le contestazioni della procura, credo siano state originate da un esposto o da qualcosa del genere. Ma non so altro», dice l’avvocato Fernando Santoni De Sio, difensore di Consoli. La vicenda che ha portato alle perquisizioni di ieri mattina è la conseguenza dell’esposto firmato dalla madre di una giovane iscritta al Gruppo eucaristico di preghiera, diretto da Consoli. «Non ho più notizie di mia figlia, mi aiuti» aveva detto la donna all’avvocato Michele Polleri.

La figlia Giorgia (il nome è di fantasia) ha 36 anni, è specializzata in marketing e lavora come manager per una multinazionale nel settore della moda. Dopo due anni e mezzo in quel gruppo di preghiera ha incominciato ad avere atteggiamenti strani. Ha tagliato i ponti con la famiglia. Nello stesso gruppo di preghiera aveva militato anche la madre, che dopo qualche anno si era sentita emarginata. Al contrario della figlia, che pareva tenuta in sempre maggiore considerazione. L’improvviso distacco di Giorgia dalla famiglia aveva insospettito la madre. L’avvocato Polleri conosceva già il nome Consoli. E’ protagonista di una burrascosa separazione coniugale finita con una «lite» civile e con un processo penale, dove il medico è sott’accusa per sequestro di persona assieme ad altri componenti del Gruppo di preghiera. Comprese le due figlie maggiori. La moglie accusa il marito e gli altri di averla chiusa in casa e di averla costretta a subire una «doccia di purificazione» con l’acqua di Lourdes. Dopo quell’episodio, la moglie di Consoli era passata a casa per portare via gli ultimi indumenti e oggetti personali. Aveva notato su uno scaffale alcuni raccoglitori e aveva deciso di dare un’occhiata: dentro c’erano lettere (alcune scritte a mano) di fanciulle iscritte al gruppo di preghiera. Tutte identificavano Consoli con «Dio» oppure «Gesù», tanto da iniziare le lettere con «Caro Gesù…», per proseguire con racconti di giochi tra erotismo e violenza, dove le ragazze si definivano «spose mistiche» del medico.

Una di queste lettere era proprio di Giorgia. Scritta a mano: la madre ha riconosciuto la grafia. «Faceva parte della terapia sfogare le proprie difficoltà attraverso la fantasia» era stata la tesi di Consoli, quando quelle lettere erano spuntate davanti al giudice in occasione della separazione coniugale. Una «cura» che nulla c’entra con la fisiatria, secondo la procura, che mantiene segretissimi altri elementi raccolti contro il medico.

Appunti di mitologia celtica

giugno 28, 2009

Laura Mossino El-Mouelhy

 

Seguendo il suggerimento di un amico, caro e competente, ho letto i due  splendidi libri di Lady Gregory sulla mitologia dei Celti, e, così di primo acchito e senza troppo pensare due considerazioni iniziali mi vengono in mente.

La prima di queste considerazioni è che, leggendo le storie e le avventure di Cuchulain di Muirthiemne e la storia dei Tuatha de Danaan, in una certa misura continuiamo a rileggere l’eterna storia di Gilgamesh, dal momento che tutta l’epica celtica che conosciamo, o almeno che io conosco, si basa sulla ricerca dell’immortalità, intesa come raggiungimento della perfezione, e sul cammino irto di ostacoli, che tutti, uomini e dei, devono affrontare per raggiungerla.

Naturalmente esistono differenze tra la mitologia celtica e quelle dei paesi mediterranei o dell’Asia Minore, ma, dal momento che si tratta sempre e comunque di popolazioni indoeuropee, è possibile trovare una solida base comune in tutti i loro miti, a prescindere dalle numerosissime differenze e particolari che le distinguono una dall’altra e che si riferiscono a popolazioni con usi e costumi diversi.

Senza analizzare i miti mesopotamici in profondità, vorrei solo notare come sia i Sumeri che i Babilonesi basassero la loro religione sulla fede in una dea madre, una grande dea, madre di tutto quanto esiste, e come a questa dedicassero i più grandi onori e cerimonie. I miti di Ishtar e Tammuz, Inanna e Dumuzi in Mesopotamia, Iside e Osiride in Egitto, Afrodite e Adone in Grecia ripetono tutti il mito primigenio della madre, esistente da sempre, che crea l’universo intero, lo foggia e lo mantiene in vita, resuscitandolo ad ogni stagione. Dee Madri, Veneres, o dee della vegetazione rappresentano tutte lo stesso principio, come si ritrova anche nella grande dea, rappresentata dalla triade divina, nella mitologia celtica.

La leggenda di Gilgamesh, il suo viaggio in territori sconosciuti per raggiungere il paradiso in cui vive l’uomo eterno, Uthnapishtin, colui che si è salvato dal diluvio, e che non raappresenta altro che il cammino iniziatico dell’uomo per raggiungere la salvezza e la felicità eterna, è ripetuta innumerevoli volte nelle leggende irlandesi e gallesi sulle quali si fonda la conoscenza attuale della religione dei Celti, naturalmente con particolari diversi dovuti alla loro diversa concezione della vita.

Gli eroi celtici compiono il loro viaggio iniziatico alla ricerca del “calderone di Karidwen”, che può offrire l’abbondanza, sanare le ferite e in casi estremi riportare un morto alla vita: non molto dissimile dal “paradiso” e dall’immortalità ricercati da Gilgamesh.

La seconda considerazione che mi sorge immediatamente nella mente è che, al contrario delle tradizioni egizie, ebraiche e greco-romane, non esistono presso i Celti miti di creazione: il mondo esiste, non viene creato da una divinità, femminile presso i popoli asiatici almeno in origine, femminile anche presso le popolazioni ebraiche, che però molto prima degli altri popoli la trasformarono in un dio maschile, androgina presso gli Egizi, in modo da includere i due poli naturali della vita.

Questa, vale a dire l’assoluta mancanza di miti di creazione, è la sostanziale differenza tra la concezione del divino tra i celti e gli altri popoli, sia asiatici che mediterranei, e sarebbe bene aggiungere a questi anche le popolazioni germaniche.

Comprendere la religione dei Celti comporta numerose difficoltà, la prima delle quali può essere accordare l’idea di un pantheon estremamente vario e popolato da circa quattrocento divinità con l’idea base di un unico principio divino. Per far questo bisogna rinunciare alle comuni categorie di giudizio tipiche della tradizione culturale dell’Occidente, che sono il frutto dell’incontro tra il pensiero classico e quello giudeo-cristiano. Per farlo dobbiamo imporci di pensare il divino in termini di incessante evoluzione, cosa questa che esclude la possibilità di porre in rapporto antitetico materia e spirito, così come, contemporaneamente, include l’essere umano in un processo evolutivo analogo a quello seguito dalla divinità.

Questo permette di spiegare il motivo per cui presso i Celti non esistessero miti di creazione, perché tutte le esistenze “in corso”, della terra, degli alberi, degli animali, degli uomini comuni, degli eroi e infine degli dei, fanno parte di un continuum, che è costantemente ricreato, poiché si origina da un universo in perpetua evoluzione.

A questo concetto si riallaccia l’idea della pluralità dei mondi, del visibile e dell’invisibile, che non devono essere intesi materialmente come luoghi e neppure come un al-di-qua e un al-di-là inconcilabili l’uno con l’altro.

Secondo l’insegnamento druidico, esistevano quattro mondi, o cerchi, che rappresentavano piani diversi della manifestazione del divino. Il primo di questi mondi era il “cerchio vuoto”, l’Oiw, regno dell’assoluto; il secondo era il regno della coscienza spirituale; il terzo era il mondo fisico e reale, dove esiste la morte; il quarto era il mondo della materia inanimata ed incosciente, punto di partenza del processo evolutivo, che poteva ricondurre all’Oiw.

I druidi, sacerdoti e saggi, insegnavano in primo luogo il rispetto per la natura, non tanto per una forma di ecologismo ante litteram, ma perché concepivano la natura come madre sacra di tutti i viventi. Questo pensiero di fondo faceva sì che, per i Celti, non avesse alcun senso la distinzione tra sacro e profano, materia e spirito, corpo e mente, e che la molteplicità sperimentata dai sensi potesse essere ricondotta facilmente ad un principio unitario.

Questo principio unico e increato era appunto l’Oiw, che era circondato da gerarchie celesti che si manifestavano attraverso le forze della natura.

Il Sole era il simbolo visibile dell’Oiw ed emanava tre raggi, tre forme di energia, da cui dipendeva l’ordine dinamico del cosmo: amore, forza, conoscenza. La materia era ciò che portava testimonianza di questo dinamismo, con le sue svariate forme ed i suoi diversi aspetti.

La ricerca di una via che consentisse all’uomo il passaggio dal mondo fisico, caratterizzato dalla legge della necessità, al mondo spirituale, libero e sciolto da ogni legge immanente, comprendeva il superamento di molte prove e possiamo considerarlo uno dei punti fondamentali della cultura celtica, ed è, tra l’altro, alla base della leggenda del Graal.

Derivata da questa concezione del mondo è l’idea che i Celti avevano della morte: secondo la loro interpretazione la morte fisica non era che la cessazione della cooperazione organica tra i quattro elementi, perciò il corpo astrale di un defunto entrava in un mondo invisibile, considerato un’espansione di quello fisico reale, dove conservava la memoria della sua vita terrena. Secondo la tradizione questa memoria spingeva i defunti a ritornare fra i vivi, che li accoglievano serenamente e senza paura o dolore, nel giorno di Samhain (1° novembre). Questa tradizione è stata recuperata dal calendario cristiano nella festa del Giorno dei Morti, il 2 novembre.

Con il passare del tempo la coscienza della vita terrena si affievoliva nei defunti, che giungevano ad una seconda morte, dopo di che potevano accedere alla terza, il mondo dell’oblio. A questo punto, secondo il livello di evoluzione spirituale raggiunto durante la vita fisica, passavano al piano della coscienza spirituale e all’immortalità, oppure ritornavano al mondo fisico. Questo ciclo secondo i Celti sarebbe continuato fino a che l’ultimo essere non avesse raggiunto la perfezione e fosse quindi riunito all’Oiw. E’ facile capire il motivo per cui Cesare riferisce che i Celti credevano nella reincarnazione, anche se sembra piuttosto che solo alcuni saggi, particolarmente avanzati nella conoscenza della verità, avessero la possibilità di sperimentare diversi stati spirituali. Si spiegherebbe così anche l’insistenza di molti miti sulla capacità di trasformarsi magicamente in animali, cose o persone diverse: tutto farebbe parte dell’esperienza, collegata al perenne e dinamico divenire dell’Oiw.

Secondo la tradizione l’Oltretomba sarebbe un’isola situata all’estremo occidente, oltre l’oceano. Per le popolazioni del Galles, invece, le anime dei defunti dimoravano sull’isola di Avalon, luogo in cui crescevano i frutti che donavano l’eterna giovinezza, l’immortalità e la scienza. Dal momento che i Celti praticamente non ponevano barriere tra il visibile e l’invisibile, questo mondo era facilmente accessibile ai vivi, che credevano di conoscerne le entrate, solitamente poste su colline, vicino a torrenti o nei boschi, tanto che si consigliava ai bambini di non avvicinarsi a questi luoghi, così come anche agli ammalati ed ai deboli, per timore che non avessero energie sufficienti per tornare indietro e vi si smarrissero.

All’Oltretoma è collegato il Sidh, ma tra i due luoghi vi sono alcune differenze sostanziali. Sidh significa “pace”, ma anche “collina incantata”, cioé un luogo abitato da esseri invisibili e fatati, che possono normalmente e facilmente accedere ai due mondi, mentre questo passaggio è casuale e in un certo senso pericoloso per gli esseri umani normali. Il Sidh è un mondo felice e gioioso, dove non esistono sofferenze e bisogni e la vita trascorre tra piaceri di ogni tipo. Si trova in ogni luogo e in nessuno contemporaneamente e potrebbe anche essere inteso come il mondo al quale giunge il defunto dopo la terza morte, a patto che in terra sia riuscito a raggiungere il massimo livello di coscienza.

Al Sidh, luogo di delizie e di piaceri, è collegata tuttavia anche l’idea di esilio: qui infatti si rifugiarono i Tuatha de Danaan, quando, dopo aver respinto quattro invasioni nemiche, non riuscirono a fronteggiare l’ultima, condotta dai figli di Mil. Si ritirarono quindi nel Sidh, immortali ma sconfitti.

Quattrocento divinità sono state enumerate, ma la religione celtica ci appare profondamente unitaria: come non ricordare a questo proposito l’induismo, con il suo dio unico attorniato da circa tre milioni di dei?

Le notizie su questo pantheon celtico ci sono in massima parte fornite da Cesare, che dedica alcuni capitoli del suo De bello gallico alla religione delle Gallie, e dai monaci irlandesi, che, subito dopo la cristianizzazione della regione, misero per scritto le tradizioni fino ad allora tramandate oralmente, come era l’uso dei Celti. Anche se queste informazioni potrebbero in qualche misura essere state alterate ideologicamente, tuttavia ci permettono di ricostruire, almeno in parte, la religione celtica e di tracciare una specie di mitologia comparata.

Il dio più vecchio, Dispater secondo i Romani, fu spodestato da una generazione di dei più giovani, Lug, Karidwen e Dagda, aggressivi ed ambiziosi, proprio come nella mitologia greca accadde ad Urano.

Secondo Cesare, Lug corrisponderebbe a Mercurio ed avrebbe una certa supremazia sugli altri dei. A Lug erano dedicate due della maggiori festività del calendario celtico ed il suo nome è il più ricorrente nei toponimi (Lugdunum per esempio, diventata Lione). Oltre agli attributi dell’Hermes-Mercurio greco-romano, possiede molti degli attributi di Apollo e sempre a Lug sarebbero connessi Keraunos, il dio cornuto, Taransi o Taraunos, il dio delle tempeste, e Belenos, il luminoso.

A Lug era associata, come ad Apollo Artemide, Karidwen, che rappresenta l’archetipo della grande madre, persino superiore a Lug stresso, e che indica la sopravvivenza nella società celtica della concezione matriarcale del divino. Karidwen, nella persona di Artio, diviene la dea della natura intonsa e selvaggia, ed appare nella forma di un’orsa (artos significa orso, come è ricordato nel nome del mitico Artù). Nella forma di Epona, la dea cavalla, conferisce la sovranità ed è estremamente interessante notare come il potere giunga all’uomo tramite una divinità femminile, così come in tutte le favole indoeuropee l’eroe deve sposare la figlia del re per raggiungere la regalità. Epona, inoltre, può prendere la forma di un fiume in piena, riallacciandosi all’idea della fertilità. Altre personificazioni di Karidwen erano Rhiannon, la regina della morte, Morrigain, la maga, Coventina, collegata ai pozzi sacri e regina della poesia e dell’arte profetica, ed infine Brigid o Brigt, la brillante, cristianizzata come Santa Brigida e ancora oggi molto onorata in Irlanda.

Karidwen, la dea madre, era anche associata in modo particolare con la luna e comprendeva le tre forme di questa: la Vergine (luna nuova), la Madre (luna piena) e la Maga (luna calante).

L’ultima divinità della triade principale è Dagda, dio degli inferi, simile ad Ade, ma con caratteristiche anche di Poseidon, inoltre è  rappresentato zoppo, quindi può far pensare anche ad Efesto. Non dà origine a molte altre divinità, ma Cesare afferma che era oggetto di grandissima venerazione.

Uno dei punti più interessanti della mitologia celtica è quello che potremmo chiamare la “dominante notturna”. La maggior parte dei riti, infatti, si svolgeva durante la notte e le ore dopo il tramonto del sole, o subito prima dell’alba, erano considerate le più propizie per leggere il futuro. Dal momento che il sole era considerato il simbolo visibile dell’Oiw e il centro di ogni perfezione, questo fatto sembrerebbe essere una contraddizione. In realtà è perfettamente logico, se consideriamo il modo di vivere e concepire il sole che avevano i Celti: infatti ne coglievano anche le caratteristiche distruttive, come le siccità terribili, che dal XIII secolo a.C. in poi avevano devastato l’Europa e che probabilmente erano rimaste nella memoria collettiva della popolazione, dando vita al grande rispetto religioso per l’acqua (fiumi, laghi, stagni: tutti erano considerati sacri), considerata elemento principale di fertilità; per la terra, fecondata dal sole, ma madre effettiva di tutte le creature; per la luna, collegata al ciclo eterno di nascita, morte e resurrezione.

Per chiarirne ancora il ruolo, si consideri che per i Celti il sole, dopo il tramonto, compiva un viaggio agli inferi, nel mondo delle tenebre e riappariva all’alba del giorno successivo dopo “aver fatto morire” le stelle.

E’ importante ricordare ancora che Karidwen, che incarna l’archetipo materno, quindi è a tutti gli effetti una dea.madre, presenta immagini di luce e immagini di tenebre insieme, secondo la dicotomia tipica di queste dee, datrici di vita ed allo stesso tempo di morte.

Anche Dana, madre dei Tuatha de Danaan, la poipolazione divina rifugiatasi nel Sidh, è collegata con la luna e sembra essere in relazione con la Diana italica, che, prima di essere identificata con la greca Artemide, aveva la supremazia sul dio del sole stesso.

Questi sono solo alcuni esempi, tuttavia potrebbero essere sufficienti a spiegare il fenomeno delle “Madonne Nere”, che troviamo sparse su tutti gli antichi territori celtici, dall’Irlanda, alla Francia (Chartres, Vichy, Le Puy, Marsiglia) all’Italia del Nord (Oropa, Madonna della Neve, Loreto): si collegherebbero ai tre aspetti di Karidwen (vergine, madre, maga), l’aspetto femminile dell’Oiw, che era venerata dai Celti comer Dea Bianca (la luna nuova) e come Dea Nera (la luna calante), dea della morte e della profezia.

Le numerose divinità celtiche devono essere interpretate alla luce di una profonda identificazione con la natura, tanto che il contatto con il divino si effettuava nei boschi, sulle alture, presso i laghi o gli stagni, le sorgenti, le grotte, che permettevano di avvicinarsi al grembo della terra. Il bosco era il luogo sacro per eccellenza, anche se menhir, dolmen e cromlech venivano usati nei riti perché segnalavano la via più diretta verso dio, scoperta dagli antenati che per primi avevano abitato quei luoghi.

Il simbolo dell’albero della vita è presente praticamente in tutte le tradizioni mitologiche e rappresenta l’esistenza nella sua totalità, essendo il prodotto dell’unione tra la terra, dove affondano le sue radici, e il cielo, dove si espandono i suoi rami. L’albero, maschile nel suo tronco, ma femminile nella sua capacità di generare frutti, riunisce in sé i due sessi e come ogni immagine androgina è un simbolo di unità.

I Celti, con la loro particolare idea spirituale della natura, attribuirono all’albero un ruolo importantissimo nella loro visione del mondo e nelle loro pratiche religiose.

Tempio degli dei e luogo privilegiato per i culti era il bosco e nelle sue radure i druidi impartivano i loro insegnamenti.. Una delle piante che erano considerate particolatrmente significative era la quercia, il cui nome in gaelico significa anche “porta”. Infatti la sapienza dtruidica permetteva di superare l’esperienza puramente fisica della realtà e di raggiungere la consapevolezza spirituale creando in questo modo un varco, una “porta” quasi, tra i due mondi e gli alberi, la quercia in particolare, agivano da catalizzatori delle energie psichiche. La quercia era anche associata a Brigid, che come Santa Brigida è ancora particolarmente onorata a Kildare, il cui nome significa in irlandese “chiesa delle querce” a Taransi, il dio del fulmine; a Dagda, che possedeva una mazza costruita con legno di quercia, per mezzo della quale apriva per i vivi la porta della morte e al contrario poteva riaprire la via verso la vita per i morti.

Un’altra pianta sacra ai druidi era il vischio, considerato un’emanazione celeste, perché come parassita della quercia non ha bisogno di radicarsi in terra. Il vischio era usato in relazione ai riti del cambiamento del ciclo annuale, in questo caso il solstizio d’inverno, dal momento che è una delle pochissime specie che germoglia nella stagione fredda, in cui la terra sembra morta.

La betulla era considerata un simbolo del femminile, per l’aspetto lunare della sua corteccia, oltre che simbolo della conoscenza e della creatività.

Il salice e l’ontano indicavano i poteri della luna e dell’acqua, ed erano considerati fonte di ispirazione poetica, mentre il nocciolo, flessibile, resistente e produttore di frutti molto nutrienti, rappresentava la saggezza. Il tiglio, invece, era simbolo dell’amore coniugale e dell’amicizia.

Quercia, vischio, betulla, salice e ontano rappresentavano per i Celti l’archetipo femminile, mentre quello maschile era rappresentato da alberi che avevano frutti rossi, il colore del sangue e del fuoco. Uno era il sorbo, i cui frutti, con le mele e le noci, erano considerati divini. Sempre al sorbo era collegato il potere della divinazione e la capacità di proteggere dagli incantesimi negativi e dai fulmini. Assimilati al mondo degli uomini e dei guerrieri erano l’agrifoglio e il frassino, usato per costruire armi.

L’abete era considerato l’albero della nascita per eccelenza, simbolo che si è  conservato nella tradizione natalizia attuale. Anche il melo selvatico era considerato particolarmente sacro e lo si trova menzionato molto sovente nei miti e nelle leggende.

Pur senza dar vita ad una dicotomia drastica, esistevano anche alberi che possedevano un potere negativo e tali erano il tasso ed il sambuco. Il tasso era associato alle tenebre ed alla morte, perché con le sue foglie i guerrieri facevano una poltiglia velenosa e vi intingevano le frecce: nel medioevo il tasso si trova costantemente associato alla stregoneria.

Il sambuco, invece, incuteva paura non tanto perché si diceva crescesse presso le vie di ingresso del Sidh, ma perché a causa delle sue bacche nere ricordava l’aspetto oscuro della dea della luna ed il suo potere mortale.

Anche le manifestazioni più umili del mondo vegetale erano circondate da significati sacrali, come ad esempio il giunco, perché collegato alla fertilità dell’acqua, la ginestra, che arricchisce i terreni poveri, l’erica, il cui polline proiduce un ottimo miele, e infine il trifoglio, oggi simbolo dell’Irlanda, e anticamente caro in modo particolare ai dtruidi, come manifestazione compiuta della triade divina.

I druidi controllavano la vita pubblica e privata del popolo ed insieme con i cavalieri erano considerati al vertice della società. Le loro prerogative erano vastissime: presiedevano non solo ai culti, ma anche esercitavano la loro autorità nella sfera morale e in quella culturale. Erano sacerdoti, indovini, interpreti dei segni divini, giudici, maestri e uomini di scienza e sarebbe senz’altro troppo riduttivo definirli semplicemente sacerdoti, o, come alcuni vorrebbere, primitivi sciamani. Il druidismo costituì una caratteristica del tutto originale del mondo celtico e fu un elemento unificante in mezzo al particolarismo tribale delle numerose popolazioni che si estendevano dall’Europa del Nord alla Galazia. Cesare ci riferisce che la gente accorreva in gran numero presso le scuole druidiche (l’insegnamento avveniva all’aperto, sovente nei boschi) e che alcuni restavano alla scuola anche dopo i vent’anni.

La trasmissione del sapere era prevalentemente orale e basata sull’esercizio della memoria. Lo scopo principale dell’insegnamento era la conoscenza della natura, delle sue energie telluriche e cosmiche, delle sue leggi e dei suoi ritmi. Questo tipo di insegnamento creava un rapporto molto intenso, rispettoso e armonioso con la natura e l’ambiente, che può trovare paragone solo con la cultura delle Prime Nazioni del Nord America.

Ho iniziato parlando di miti celtici, ma non ne ho parlato per nulla, né li ho riassunti o commentati: questo perché ho preferito mettere un poco di ordine nelle poche informazioni dirette che si hanno del mondo spirituale celtico, in modo da evidenziare quale fosse la concezione della vita e dell’esistenza in generale che avevano questi nostri antenati, troppo spesso messi da parte e quasi dimenticati in favore della gloria di Roma e delle culture successive.

Ho cercato di scoprire il significato dei miti, di interpretarli, di estrarne l’anima più riposta, in modo da ricavare un quadro, forzatamente incompleto, del sistema ideologico celtico.

La mia presunzione, per il futuro, è di rintracciare questa splendida visione naturalistica dell’esistenza umana, ma non solo, nella cultura e nel folclore del mio Piemonte.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Agrati, G.  M.L. Magini. I racconti gallesi del Mabinogion. Milano: Xenia, 1982.

De Galibier, J. I Celti. Aosta: Keltia, 1009.

—. I Druidi. Aosta: Keltia, 1998.

Frazer, J. Il ramo d’oro. Torino: Boringhieri, 1996.

Gregory, Lady. Cuchulain of Muirthemne. New York: University Press, 1970.

—. Gods and fighting men. New York: University Press, 1970.

Hetman, f. Fiabe celtiche. Milano: Mondadori, 1996.

Kruta, V. E V.M. Manfredi. I Celti in Italia.Milano: Mondadori, 2001.

Layard, J. I Celti alle radici di un inconscio europeo. Milano: Xenia, 1995.

Maclean, M. The Literature of the Celts. Reading: Cox & Wyman, 1998.

Markale, j. Il druidismo. Milano: Mondadori, 1995.

Rolleston, T.W. I miti celtici. Milano: Tea, 1998.

Vasconi, M. Miti dei Celti. Colognola ai Colli (VR): Demetra, 1999.

 

 

Discorso sul linguaggio sessualmente connotato

febbraio 15, 2009

v

LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO

POESIA CLASSICA

UN PROCESSO PER STREGONERIA

E

LUCE IRIGARAY

Laura Mossino El-Mouelhy


Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.

In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieros gamos con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.

Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.

Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.

Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.

Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.

Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.

E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.

Questo praticamente sino al secolo ventesimo.

Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.

Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.

Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.

Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.

Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.

Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.

Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.

Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.

Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.

Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.

Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.

L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.

L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.

Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.

Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.

Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.

Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.

L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.

Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione

.

In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.

Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.

Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.

Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.

Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.

La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.

Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.

Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.

Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.

Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.

Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.

Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.

Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.

Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.

Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!

I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.

Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.

Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.

Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?

Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.

Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.

Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.

Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.

Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.

Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.

Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.

Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.

Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.

Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.

L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.

La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.

Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.

Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.

Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.

Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.

Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.

Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.

Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.

Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.

Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.

Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.

Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.

Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.

Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.

I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei neoteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.

Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.

I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.

Saffo, LI.:

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli


ridi amorosamente. Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda e la voce

ouden et eikei,

non esce e la lingua si lega.

Un fuoco sottile sale rapido alla pelle

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie

E tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

.. a me rapita di mente

(trad. Salvatore Quasimodo).

Catullo, LI.:

Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio

ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei

qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta

spectat et audit ti guarda e ti ascolta

dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che

eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non

Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza

mi è rimasta,

…….

Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la

pelle un sottile

Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono

tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi

Lumina nocte. si coprono di duplice notte.

Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.

Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.

Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.

BIBLIOGRAFIA

Cameron, D. Feminism and Linguistic Theory. London: MacMillan, 1985.

Hall, K. and M. Bucholtz. Gender Articulated. Language and the Socially

Constructed Self. New York: Routledge, 1995.

Hooke, S.H. Middle Eastern Mythology. London: Penguin, 1991.

Kemp, S. And P. Bono. The Lonely Mirror. New York: Routledge, 1993.

Kramarae C. Women and Men Speaking. Rowley: Newbury House Pub., 1981.

Morford, M.P.O. and R.J. Lenardon. Classical Mythology. White Plains: Longman,

1995.

Tozzi, I. Bellezza Orsini. Cronaca di un processo per stregoneria. Antrodoco:

Nova Italia.

Whiteford, M. The Irigaray Reader. Oxford, Basil Blackwell, 1991.


LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO

POESIA CLASSICA

UN PROCESSO PER STREGONERIA

E

LUCE IRIGARAY

Laura Mossino El-Mouelhy

23 maggio 2002

Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.

In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.

Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.

Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.

Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.

Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.

Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.

E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.

Questo praticamente sino al secolo ventesimo.

Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.

Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.

Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.

Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.

Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.

Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.

Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.

Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.

Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.

Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.

Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.

L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.

L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.

Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.

Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.

Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.

Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.

L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.

Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione

.

In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.

Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.

Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.

Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.

Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.

La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.

Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.

Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.

Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.

Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.

Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.

Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.

Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.

Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.

Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!

I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.

Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.

Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.

Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?

Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.

Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.

Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.

Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.

Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.

Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.

Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.

Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.

Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.

Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.

L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.

La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.

Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.

Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.

Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.

Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.

Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.

Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.

Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.

Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.

Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.

Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.

Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.

Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.

Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.

I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.

Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.

I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.

Saffo, LI.:

Fainhtai moi khnoV isoV qeoisin A me pare uguale agli dei

emmen wnhr, ottis enantioV toi chi a te vicino così dolce

irdanei kai plasion adu fwnei- suono ascolta mentre tu parli

saV upakouei

kai gelaisaV imeroen, to m h man e ridi amorosamente. Subito a me

kardian en sthqesin eptoaisen. il cuore si agita nel petto

wV se gar idw broce, wV me fwnaV solo che appena ti veda e la voce

ouden et eikei,

alla kam men glwssa m eage, lepton non esce e la lingua si lega.

d autika. crw pur upadedromaiken, Un fuoco sottile sale rapido alla pelle

oppatessi d ouden orhmm, epirrom- e ho buio negli occhi e il rombo

beisi d akouai, del sangue alle orecchie

a de m idrwV kakceetai, tromoV de E tutta in sudore e tremante

paisan agrei, clwrotera de poias come erba patita scoloro:

emmi, teqnakhn d oligw pideuhV e morte non pare lontana

fainom , all… a me rapita di mente

(trad. Salvatore Quasimodo).

Catullo, LI.:

Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio

ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei

qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta

spectat et audit ti guarda e ti ascolta

dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che

eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non

Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza

mi è rimasta,

…….

Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la

pelle un sottile

Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono

tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi

Lumina nocte. si coprono di duplice notte.

Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.

Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.

Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.

BIBLIOGRAFIA

Cameron, D. Feminism and Linguistic Theory. London: MacMillan, 1985.

Hall, K. and M. Bucholtz. Gender Articulated. Language and the Socially

Constructed Self. New York: Routledge, 1995.

Hooke, S.H. Middle Eastern Mythology. London: Penguin, 1991.

Kemp, S. And P. Bono. The Lonely Mirror. New York: Routledge, 1993.

Kramarae C. Women and Men Speaking. Rowley: Newbury House Pub., 1981.

Morford, M.P.O. and R.J. Lenardon. Classical Mythology. White Plains: Longman,

1995.

Tozzi, I. Bellezza Orsini. Cronaca di un processo per stregoneria. Antrodoco:

Nova Italia.

Whiteford, M. The Irigaray Reader. Oxford, Basil Blackwell, 1991.


LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO

POESIA CLASSICA

UN PROCESSO PER STREGONERIA

E

LUCE IRIGARAY

Laura Mossino El-Mouelhy

23 maggio 2002

Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.

In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.

Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.

Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.

Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.

Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muqoV in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.

Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.

E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.

Questo praticamente sino al secolo ventesimo.

Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.

Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.

Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.

Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.

Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.

Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.

Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.

Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.

Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.

Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.

Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.

L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.

L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.

Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.

Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.

Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.

Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.

L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.

Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione

.

In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.

Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.

Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.

Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.

Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.

La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.

Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.

Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.

Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.

Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.

Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.

Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.

Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.

Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.

Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!

I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.

Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.

Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.

Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?

Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.

Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.

Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.

Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.

Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.

Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.

Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.

Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.

Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.

Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.

L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.

La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.

Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.

Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.

Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.

Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.

Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.

Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.

Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.

Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.

Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.

Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.

Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.

Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.

Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.

I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.

Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.

I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.

Saffo, LI.:

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosamente. Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda e la voce

non esce e la lingua si lega.

Un fuoco sottile sale rapido alla pelle

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie

E tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente

(trad. Salvatore Quasimodo).

Catullo, LI.:

Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio

ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei

qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta

spectat et audit ti guarda e ti ascolta

dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che

eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non

Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza

mi è rimasta,

…….

Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la

pelle un sottile

Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono

tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi

Lumina nocte. si coprono di duplice notte.

Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.

Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.

Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.

BIBLIOGRAFIA

Cameron, D. Feminism and Linguistic Theory. London: MacMillan, 1985.

Hall, K. and M. Bucholtz. Gender Articulated. Language and the Socially

Constructed Self. New York: Routledge, 1995.

Hooke, S.H. Middle Eastern Mythology. London: Penguin, 1991.

Kemp, S. And P. Bono. The Lonely Mirror. New York: Routledge, 1993.

Kramarae C. Women and Men Speaking. Rowley: Newbury House Pub., 1981.

Morford, M.P.O. and R.J. Lenardon. Classical Mythology. White Plains: Longman,

1995.

Tozzi, I. Bellezza Orsini. Cronaca di un processo per stregoneria. Antrodoco:

Nova Italia.

Whiteford, M. The Irigaray Reader. Oxford, Basil Blackwell, 1991.


LINGUAGGIO SESSUALMENTE CONNOTATO

POESIA CLASSICA

UN PROCESSO PER STREGONERIA

E

LUCE IRIGARAY

Laura Mossino El-Mouelhy

23 maggio 2002

Nell’antico Egitto, uno dei primi miti di creazione di cui abbiamo notizia racconta che Aton-Ra, divinità maschile e femminile, chiamato anche il “grande lui/lei dell’Universo”, autofertilizzandosi diede vita a Shu e Tefnut, rispettivamente aria e umidità. Da questa coppia nacquero Geb (la terra, divinità maschile) e Nut (il cielo stellato, femminile) e in seguito da loro tutte le cose furono create, o meglio, organizzate, messe in ordine, dal momento che non esiste nelle mitologie pre-ebraiche il concetto di creazione ex nihilo.

In Grecia, poco meno di tremila anni più tardi, Esiodo raccontava la versione comunemente accettata dal popolo della creazione dell’universo: esisteva solo il caos, non una divinità, ma un vuoto irrequieto. Dal caos sorse Gea, la terra, che trasse sempre dal caos Tartaro, Eros, Erebo e la Notte, dalla quale nacquero l’etere e il giorno. Gea creò Urano, il cielo, uguale a se stessa per potenza. Unendosi in ieroV gamoV con Urano diede vita a tutti gli altri dei del Pantheon ellenico.

Molti secoli dopo Esiodo, la mitologia greca ideò moltissime altre favole, per esemplificare gli accadimenti umani: tra queste quella di Filomela e Procne, ripresa anche dai latini, particolarmente nelle Metamorfosi di Ovidio. Filomela, figlia di Pandione, re di Atene, era sorella di Procne, moglie di Tireo, re di Tracia. Un giorno Procne chiese al marito di recarsi ad Atene per andare a prendere sua sorella, che desiderava rivedere. Tireo accontentò la moglie, ma quando fu in viaggio con la cognata, preso da un’improvvisa passione, la violentò e perché non potesse denunciarlo, le tagliò la lingua e la rinchiuse in una fortezza, pensando in questo modo di essersene liberato. Ma Filomela, pur privata della possibilità di parlare, escogitò un mezzo per comunicare: ricamò tutta la sua storia su un lenzuolo, che riuscì a far pervenire alla sorella, che corse a liberarla. Le due sorelle fuggirono insieme, inseguite da Tireo, ma proprio quando stavano per essere raggiunte, gli dei trasformarono Tireo in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo.

Questi sono tre miti, diversi nello spazio e nel tempo: i primi due si riferiscono a società molto antiche, l’ultimo ad una società, invece, molto più vicina ai giorni nostri. I due miti di creazione appartengono ad un tempo in cui le società matrilineari erano ancora prevalenti, il mito di Filomela nacque ovviamente dopo l’invasione ariana che cambiò la società esistente in una patriarcale, pochi secoli prima della guerra di Troia, se vogliamo prestare fede a quanto ci racconta Omero, che dipinge la società troiana ancora eminentemente matriarcale.

Il cambiamento storico intervenuto tra la composizione dei due miti di creazione e il mito di Filomela e Procne sottintende il cambiamento dello status femminile nelle due diverse società. Nella più antica osserviamo la dea creatrice ed ordinatrice dell’universo intero, un essere estremamente potente, che non deve rispondere a nessuno dei suoi atti, in quella più vicina a noi vediamo invece la donna ridotta a dipendente dall’uomo, asservita ai suoi voleri, priva di qualunque potere: tuttavia possiede ancora un’ ombra di quella che era stata, nel passato la sua dignità. Infatti, pur ridotta muta dal cognato, Filomela riesce a comunicare, usando proprio quei mezzi che la società maschile le metteva a disposizione. Un lenzuolo ed il ricamo sono i mezzi che riescono a liberarla, anche se poi gli dei, i nuovi dei ariani, che hanno soppiantato la madre Gea, uniscono tutti, colpevole e vittime, in quella che è forse una punizione, forse un perdono.

Questi sono miti, ho detto, ma desidero far presente che la parola muthos in greco ha molteplici significati, tra questi, molto importanti per uno studio sul linguaggio, si trovano parola, discorso, racconto, storia e favola. Il mito, nella sua accezione più nota, è un racconto che ha lo scopo di insegnare qualche cosa, sia l’origine dell’universo, sia un modo di comportarsi e di agire. Per questo, il cambiamento sociale ha creato nuovi miti, come appunto quello di Filomela, per inserire nella cultura del momento una nuova immagine della donna, quando il cambiamento storico l’ha reso necessario.

Non è questo il luogo di fare una dissertazione sui motivi del cambiamento, basti dire che attraverso tutta l’Asia Minore, culla della società babilonese, che aveva miti di creazione simili a quello egiziano, attraverso tutto il bacino del Mediterraneo e tutta l’Europa, ad un certo punto della storia le donne sono state private di ogni potere, relegate nei ginecei, sottoposte agli uomini, ridotte a essere conosciute come figlia di, moglie di, madre di: non esseri umani completi, autonomi e pensanti, ma oggetti di piacere, di scambio, necessarie per la riproduzione, possibilmente di figli maschi.

E’ assolutamente logico che in un tipo di società di questo genere, anche il linguaggio abbia preso connotazioni tipicamente maschili, e che, dovendo usare uno strumento a loro non particolarmente congeniale, le donne siano state a poco a poco ridotte al silenzio. Questo non significa, naturalmente, che non potessero parlare, anche se molto sovente avveniva proprio questo: significa che, non potendosi esprimere con uno strumento adatto, la loro voce non aveva il potere di farsi sentire, se non nei rarissimi casi in cui si adattavano al linguaggio maschile. Ridotte ad esprimersi secondo quanto la società maschile pensava che fosse loro proprio, le donne divennero … mute, e non furono sentite, se non attraverso il linguaggio creato, voluto e codificato dalla parte maschile dell’universo.

Questo praticamente sino al secolo ventesimo.

Nel secolo ventesimo, particolarmente con il movimento femminista, si sono cominciati a mettere in luce i molti diversi problemi connessi con la questione femminile e tra questi, naturalmente, anche quello del linguaggio.

Attraverso i molti studi oggi disponibili, è possibile trovare diversi metodi di analisi, che si avvicinano al problema di un linguaggio femminile da diversi punti di vista, ma prima di affrontarli, penso che sia importante puntualizzare che cosa sia una teoria femminsta del linguaggio. A mio avviso questa è una teoria che connette il linguaggio al sesso in due differenti modi: con l’identità sessuale da una parte, e dall’altra con l’oppressione delle donne da parte della società. Ogni teoria femminista del linguaggio, quindi, dovrebbe tener conto di questi due punti.

Come ho detto, i metodi di approccio a questi problemi sono molteplici ed a volte molto diversi, ma penso che tre siano i più importanti: sottocultura e ruolo sessuale; gerarchia dominante e sessualità e corpo.

Per quanto riguarda il primo modo, l’idea dominante è che le donne e gli uomini formino separate sottoculture, quindi il diverso modo di esprimersi attraverso il linguaggio è considerato un particolare dei loro diversi ruoli. Questa ideologia si origina da numerosi fattori associati all’idea di maschile/femminile nella nostra società (ad esempio l’aggressività viene vista come una caratteristica maschile, mentre la passività è tipicamente femminile) e da varie indicazioni di identità che si originano dalla divisione sessuale dei compiti e del lavoro.

Il secondo punto si concentra su un aspetto particolare del ruolo femminile, cioè la sua mancanza di potere nei confronti del ruolo maschile. Secondo i sostenitori di questo approccio, tra i quali voglio ricordare Robin Lakoff, il linguaggio femminile non esprime una particolare e precisa identità sessuale, ma solamente una posizione inferiore nella gerarchia sociale. Le donne si esprimono con un linguaggio che è in se stesso privo di potere, che tuttavia non è tipico solo del sesso femminile, ma che viene usato da chiunque sia in una posizione debole e subordinata. Hagen-Helgin asserisce che “Non esiste qualcosa come un linguaggio femminile”, ma piuttosto esistono un linguaggio dominante ed uno subordinato, quindi le donne, essendo un gruppo subordinato, tendono ad usare quest’ultimo tipo di espressione. La Lakoff, inoltre, sostiene che il linguaggio delle donne non ha niente a che fare con la femminilità, bensì si origina dal ruolo subordinato di queste nella nostra società.

Altri teorici, infine, ritengono che il linguaggio sia in relazione con l’identità sessuale, mediato attraverso il corpo ed il desiderio sessuale. Esponenti di questa teoria sono Hélène Cixous e Luce Irigaray e, sebbene queste affermino che il linguaggio di cui parlano non esiste ancora ed è un’utopia e non una realtà descrivibile, è proprio attraverso le idee di Luce Irigaray che intendo esaminare la questione di un linguaggio femminile un poco più da vicino.

Luce Irigaray prende avvio da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, un testo fondamentale per tutti coloro che desiderano occuparsi di femminismo, ma al contrario della scrittrice francese, che ha sempre guardato alla psicanalisi con sospetto, la Irigaray basa la maggior parte delle sue osservazioni sulla sua esperienza di psicoanalista, e questo significa che il suo pensiero riguardo al movimento di liberazione femminile va ben oltre la ricerca di un’uguaglianza tra i sessi. Infatti, uguaglianza, come viene richiesta a gran voce nella nostra società da parte dei gruppi femministi, significa uguale agli uomini, mentre la Irigaray pone l’accento su una soluzione alternativa di differenza sessuale. E’ evidente che, anche raggiungendo l’uguaglianza in tutti gli aspetti della vita, fatto altamente chimerico ed utopico, questo significherebbe solo ottenere gli stessi diritti posti da una norma maschile, che ovviamente non sono quelli che invece verrebbero posti da una norma femminile.

Per ottenere uguali ma differenti diritti davanti alla legge le donne devono poter ottenere accesso alla loro vera identità. Devono perciò trovare un valore nell’essere donne, non solo nell’essere madri, come è sempre stato loro concesso dalla società patriarcale, e soprattutto non solo nel divenire simili agli uomini nella loro ricerca dell’uguaglianza.

Lo sfruttamento delle donne si è sempre basato sulla differenza sessuale e di conseguenza può essere risolto solo attraverso la stessa differenza. Inoltre, sostiene, l’uguaglianza tra uomini e donne può essere concepita e raggiunta solo se si pensa ai due generi come sessuati, fatto che deve risultare in due diversi codici di diritti e doveri: due generi diversi, di conseguenza due diverse leggi sociali, ciascuna specifica ad un sesso.

Parlando in modo specifico del linguaggio, Luce Irigaray dice che Freud l’ha definito sessualmente indifferente , nel senso che le differenze tra i sessi non sono mai state rappresentate. Tuttavia, continua la Irigaray, la debolezza del pensiero freudiano, in questo caso specifico ed anche in altri, è che Freud è totalmente inserito in una struttura di potere ed in una ideologia di tipo patriarcale, che lo porta a considerare fatti storici e sociali come dovuti alla natura o all’anatomia. Questo diviene evidente in quei gruppi femministi che cercano semplicemente di riprodurre le strutture del discorso maschili, di nuovo una ricerca di uguaglianza, dove questo significa diventare uguali all’uomo, non di parità. Questo è un fatto estremamente grave ed anche pericoloso, perché, agli estremi, potrebbe anche portare alla sparizione del femminile, assorbito in un codice stabilito dall’altro sesso.

Per evitare questo pericolo, la Irigaray suggerisce di concentrarsi su una doppia sintassi, più esplicitamente un’articolazione tra conscio ed inconscio, maschile e femminile. Per poter raggiungere questo scopo le donne devono riuscire a trovare un amore di sé, perché se questo non esiste all’interno della grammatica come fatto culturale, le donne continueranno ad essere usate come materiale e strumenti per l’amore di sé maschile, e continueranno ad essere impossibilitate ad esprimere il loro proprio desiderio.

L’espressione di un desiderio femminile, fino al momento in cui la Irigaray scrive, sembra un fatto impossibile, perché Freud ha sempre descritto il sesso femminile come mancanza o atrofia, quindi l’intero sviluppo sessuale femminile è dominato dalla mancanza, dal desiderio, dalla gelosia per il possesso di un organo maschile. Per Freud non sembra possibile definire la sessualità femminile per se stessa ed in quanto se stessa. Non si deve tuttavia colpevolizzare Freud in eccesso: infatti, pur avendo omesso di investigare i fattori storici e sociali per questa che noi oggi vediamo come un’aberrazione, tuttavia ha studiato la sessualità femminile come effettivamente la vedeva, e l’ha accettata coma una regola.

L’impossibilità di espressione di un desiderio femminile porta la Irigaray a una rilettura della storia della filosofia, che a sua volta la condurrà al linguaggio, in quanto la filosofia può essere definita un discorso su un discorso. E’ indispensabile un esame approfondito di come agisce la grammatica, di tutte le figure del discorso, delle leggi sintattiche, le sue figure immaginifiche, le sue metafore ed anche, naturalmente dei suoi silenzi. Purtroppo, però, la psicoanalisi non riesce a risolvere il problema dell’articolazione di un discorso sessuato femminile, quindi, il desiderio ed il piacere femminili possono solo restare inarticolati nello stesso linguaggio femminile, poiché una cosa assolutamente proibita alle donne è il tentativo di esprimere il loro proprio piacere. In definitiva tutto si riduce alla rappresentazione del desiderio fallico attraverso il linguaggio. Se la donna riuscisse a esprimere il suo desiderio, avrebbe la possibilità di riscoprire l’amore di sé, si potrebbe anche dire di riscoprire il suo dio, al quale non si é mai potuta appoggiare, perché a questo dio è sempre mancata la dualità e senza di essa, qualsiasi amore di sé una donna tentasse di esprimere, era ed è sempre mediato attraverso il desiderio e l’amore di sé maschile, quindi la riconduce direttamente nel grembo della dominante società fallocratica.

Da tutto questo si deduce chiaramente che non è il caso di tentare un recupero del femminile per mezzo di strumenti logici che contribuiscono a reprimerlo ed a censurarlo. Bisogna, invece, all’interno del discorso, trovare il modo di ridefinire il femminile non come mancanza, insufficienza o imitazione.

Come si può tentare di definire questo nuovo linguaggio che lascerebbe spazio all’espressione del femminile? In primo luogo non dovrebbe contenere dicotomie, non dovrebbe esserci un lato giusto ed uno sbagliato del discorso, e ciò che ci potrebbe aiutare in questo è la specularità del discorso, vale a dire il soggetto autoriflesso nel discorso stesso. Senza l’autoriflessione del soggetto si perpetua la mancanza di continuità tra ciò che è percettibile e ciò che è intelleggibile, e di conseguenza la subordinazione e lo sfruttamento del femminile. Con l’autoriflessione del soggetto, invece, si otterrebbe il risultato di sganciare il fallocratismo dai suoi appigli sociali, il maschile si riapproprierebbe del suo proprio linguaggio e lascerebbe aperta la via per un possibile, nuovo linguaggio femminile.

Inserito nel problema del linguaggio e tanto strettamente legato a questo da essere quasi indistinguibile, è il problema della femminilità. E’ vero, dice la Irigaray, che la donna potrebbe in un futuro molto vicino essere uguale agli uomini, economicamente, socialmente, politicamente, ma dovrebbe sempre comunque, mantenere, per essere presente sul mercato sessuale (per strana che possa sembrare questa espressione, diviene valida se pensiamo alla donna potenzialmente madre) quella che viene definita femminilità. Questo particolare contribuisce al suo valore, ma se guardiamo bene, questa femminilità non è altro che un ruolo interpretato, un’immagine imposta alle donne dal desiderio maschile, assurto a legge di un’intera società. Non è altro che una maschera, indossata seguendo quelli che sono i criteri di femminilità stabiliti da altri, alieni a questo sesso, e intrepretando questo ruolo la donna perde se stessa, la sua vera essenza e personalità, per assurda ironia proprio interpretando un ruolo basato sul concetto di femminile.

Ne segue che l’uso, il consumo e lo stesso significato dei corpi sessuati delle donne accreditano l’ordine sociale esistente, dove loro stesse non hanno mai agito come soggetti.

L’inferiorità sociale delle donne viene anche aggravata dal fatto che esse non hanno accesso al linguaggio se non attraverso il sistema maschile, che altera la loro relazione con se stesse e con le altre donne. Il femminile, infatti, è sempre e solo identificato attraverso il maschile: il linguaggio, codificato come è oggi, ha, molto opportunamente per la parte maschile del mondo e molto efficacemente, reso le donne del tutto afasiche. C’è veramente da chiedersi che cosa succederebbe se le donne riuscissero a diventare veramente dei soggetti parlanti.

Il concetto di donne come soggetti parlanti trascina con sé anche la scrittura, naturalmente, e porta avanti la necessità di un’altra scrittura, che sottintende un’altra diversa serie di significati, e dove la scrittura in sé si riferisce agli effetti, il significato invece si ricollega all’inconscio, in questo caso ad un inconscio femminile. L’inconscio (femminile) opposto alla coscienza, la razionalità (maschile), invece di avere un rapporto di subordinazione, come in Freud, dovrebbero esistere sullo stesso livello, ed in questo modo potrebbero essere elaborati in due distinte sintassi. Forse proprio perché continua a dominare la sintassi, il maschile continua ancora oggi a dominare il linguaggio. Così come è la situazione oggi, la sintassi esistente del discorso, sia logica, sia politica, sia economica, è un mezzo per l’espressione del desiderio maschile, per l’amore di sé maschile, e molto egoisticamente, sicuri dei loro diritti storici, gli uomini l’hanno usata per i loro scopi, sfruttando ogni cosa per ottenere una gratificazione

.

In conclusione questa nuova sintassi non è certamente facile da definire: non dovrebbe forse più avere un soggetto ed un oggetto, nessun privilegio sarebbe più attribuito ad uno solo dei due sessi, i significati, i nomi, gli attributi dovrebbero cambiare. Questa sintassi in particolare dovrebbe comprendere vicinanza, prossimità in un grado tale, però, da impedire ogni identificazione tra uno e due, in modo da impedire qualsiasi forma di possesso e di sfruttamento.

Il luogo dove può più facilmente essere riconosciuto un tale tipo di sintassi è nel codice gestuale del corpo femminile, anche se questo è molto sovente impedito nella sua espressione vera dalla mascherata della femminilità, divenendo in questo modo estremamente difficile da decifrare, eccetto in pochi casi, come nella sofferenza e nel riso, o in ciò che le donne osano esprimere quando sono tra di loro.

Il problema del linguaggio femminile è esattamente quello di trovare un modo di connettere l’espressione gestuale e il desiderio femminile ad una espressione verbale, una lingua.

Purtroppo la conclusione di Luce Irigaray è che un linguaggio femminile, non esiste ancora e, fintanto che le donne non ritroveranno l’amore di sé, e fintanto che non creeranno un loro proprio linguaggio, saranno sempre obbligate ad usare gli schemi maschili per esprimersi, la mascherata della femminilità, i cosiddetti discorsi femminili, privi di potere e della capacità di esprimere con verità sentimenti o pensieri diversi da quelli della società dominante: le donne, quindi, resteranno una sottospecie inascoltata e praticamente afasica, muta.

Uno dei capitoli più atroci e vergognosi della storia dell’umanità e della Chiesa riguarda quel fatto storico-sociale che è comunemente conosciuto con il nome di caccia alle streghe, un’esplosione di odio antifemminile che poteva venire scatenato da dicerie, anche assurde, provocate da invidia, gelosia, rancori personali o anche solo coincidenze del tutto fortuite. In Europa, tra i secoli XIV e XVIII si scatenò un vero e proprio delirio antifemminile, e le streghe furono considerate colpevoli di molteplici peccati, dal sovvertimento dell’ordine sociale, all’eresia, dall’avere rapporti con il diavolo all’omicidio per motivi puramente egoistici e personali.

La credenza nella stregoneria ha radici profonde e molto lontane nella nostra civiltà e si può riallacciare agli antichi culti babilonesi ed egizi, per i quali magia e stregoneria facevano parte dei poteri delle dee della fecondità, quando la società si sviluppava ancora secondo un ordine matrilineare. Presso i Greci ed i Romani non ebbe mai una grande importanza, in parte perché le due popolazioni svilupparono un tipo di società basato maggiormente sulla logica e sulla critica, in parte perché al loro apogeo si trovavano già molto distaccate dalla primitiva società fondata sul matriarcato.

Il Cristianesimo, derivando dall’ebraismo, ammetteva la possibile esistenza di essere soprannaturali e dotati di poteri superiori a quelli degli uomini comuni, quindi, quando si unì sincreticamente con i culti e le credenze precedenti, precedenti anche alla civilizzazione romana e greca, trasformò questi esseri diversi in esseri demoniaci, creando in questo modo l’infinita schiera dei servitori di Satana e piombando, infine, nell’aberrazione appunto della caccia alle streghe.

Per combattere i poteri di questi esseri puramente malvagi, la Chiesa istituì l’Inquisizione, che aveva il compito di decidere se una donna (molto raramente un uomo) avesse stretto il famigerato patto con il diavolo, e in seguito di giudicare la sua colpevolezza. L’Inquisizione non aveva il compito di punire il reo: la punizione, su suggerimento della Santa Inquisizione, veniva comminata dal potere politico, il cosiddetto braccio secolare.

Si trattò, come ho detto, di un delirio, e le prime luci dell’Illuminismo riuscirono a sgomberare il mondo da queste ombre, tuttavia, nei quattro secoli di caccia alle streghe, sono state messe a morte sui roghi di sicuro un milione di persone, quasi tutte donne, e secondo alcuni documenti, che sembra impossibile controllare, le morti ammonterebbero addirittura a nove milioni in tutta Europa.

Un particolare di cui si deve tenere conto è che per il popolo, che inconsciamente ne ricordava le origini sacrali, la strega era un essere dicotomo: poteva operare malefici, ma anche guarigioni, causare la morte, ma anche allontanarla. Buona e cattiva: per questo era invocata e respinta allo stesso tempo. Rappresentava un sapere ed una cultura totalmente femminili, originatasi molto lontano nel tempo, che le donne apprendevano dalle loro ave e che era in stretto rapporto con la vita e la natura. In un mondo totalmente maschilista, rappresentavano l’ostilità del mondo femminile nei confronti dello strapotere maschile, un potere assoluto e incontrastato, contro il quale le donne tentavano di ribellarsi, poche di loro, stabilendo il loro potere sulle forze e le leggi della natura: ma anche questa forma di ribellione sui generis era considerata pericolosa per lo stato, quindi doveva essere soppressa, affinché gli uomini non perdessero il loro potere.

Una di queste donne era Bellezza Orsini di Collevecchio, nel Lazio, giudicata per stregoneria e trovata colpevole nel 1528.

Come sostiene Robin Lakoff, Bellezza si trovava in uno stato di duplice subalternità: di status, perché era vedova e povera, e di sesso, percé donna. Per questo la sua autodifesa fu senza successo, come lo fu per tutti coloro che furono giudicati per stregoneria.

Il processo contro Bellezza Orsini fu istituito seguendo i dettami enunciati da San Bernardino da Siena nella sua XXXV predica in volgare, che elenca tutti gli attributi più comuni della strega, come l’unzione con grasso di cadaveri o di bambini nati morti, adorazione e atti sessuali con il diavolo. Il fatto che la XXXV predica in volgare fosse stata composta da San Bernardino per distogliere l’attenzione delle alte gerarchie ecclesiastiche dal suo culto delle reliquie, naturalmente, non aveva alcuna importanza per gli inquisitori e per il popolo che aveva denunciato Bellezza.

Bellezza è, dunque, vedova, e non è più giovane quando il giudice di Fiano, Marco Calisto da Todi, apre, attorno al 1528, un’istruttoria contro di lei, sollecitato da voci che correvano sulla sua infallibile capacità di fare male al suo prossimo per mezzo della stregoneria.

Non è il caso qui di stare a riferire l’intero processo con tutti gli interrogatori; quello che vorrei fare è solamente di mettere in luce il comportamento di questa povera strega di campagna, evidenziando nelle sue risposte il linguaggio privo di potere che è costretta ad usare, in questo caso per due motivi, l’ignoranza, di fronte ai dotti giudici, e l’essere una donna, dalla quale non si aspettano asserzioni profonde o ribellioni. Come vedremo Bellezza, per un breve momento troverà dentro di sé, la forza di ribellarsi, ma sempre in un contesto di confessione/ritrattazione: e chi non avrebbe fatto la stessa cosa, quando alla fine del cammino bruciava un rogo? Non tutti gli esseri umani possono essere Giordano Bruno, infine!

I testimoni importanti furono tre: una vedova, Elisabetta, un certo Cecco, e il prete del paesino, don Egidio. L’escussione dei testi sembra confermare la perfidia di Bellezza, anche se alcuni particolari possono far pensare ad una situazione differente. Elisabetta afferma che Bellezza, solo con il tocco della sua mano, riuscì a far ammalare di una malattia mortale il figlio, che le aveva fatto uno sgarbo. Elisabetta usa un linguaggio prettamente femminile, così come viene inteso secondo gli stereotipi maschili, non solo umile e sottomesso, ma chiaramente cercando di ingraziarsi il giudice. In un modo molto interessante, la vedova afferma che solo Bellezza stessa, che ha provocato la malattia, ha il potere di guarirla, puché lo voglia. Camillo il figlio affatturato di Elisabetta, aveva chiesto che la si chiamasse e aveva dimostrato una totale fiducia nell’onnipotenza della strega, riconoscendole quel ruolo di signora della vita, che apparteneva alla grande dea dell’epoca matriarcale e che la cultura, il diritto e la religione maschili e patriarcali, nel tentativo di negare ogni potere femminile, avevano demonizzato nell’inconscio collettivo.

Comunque, la strega viene chiamata, accorre al cappezzale dell’ammalato, ma ormai è troppo tardi e Camillo muore. Muore dicendo, secondo la madre Elisabetta: “Ahò, Bellezza me ha voluto fornire!”. La madre conclude :“Tengo che lei sia stata che mello habia morto”. La testimonianza viene accettata come prova e a niente serve che Bellezza neghi di avere mai fatto una fattura a Camillo e che spieghi che non si è recata subito dall’ammalato perché in lite con la madre per una loro discussione a proposito di alcuni denari.

Al secondo testimone, Cecco, Bellezza aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi ed aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili, fino a che aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio, ed era subito guarito, seguendo un rituale suggerito dalla donna. Bellezza invece nega da principio di aver fatto mai nulla contro Cecco, ammette solo di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio.

Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti: forse perché Bellezza ha reagito in modo femminile ad un insulto fatto ad un’altra donna, e questo, non poteva poi avere troppa importanza?

Dice Cecco al giudice: “Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. … è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra”. Sembra dalle sue parole che sia opinione generale che Bellezza Orsini sia una strega, capace di operare il male ed il bene: una specie di fattucchiera, o una medicona, che conosce alcune pratiche terapeutiche e fitofarmacologiche, oppure omeopatiche, come tante donne, depositarie di saperi considerati arcani, e che li trasmette ad altre. Bellezza, però, non possiede la capacità, il linguaggio, per farsi sentire e la sua difesa, pur avendo guarito Cecco, resta inascoltata e non sentita.

Molto più interessante e rivelatrice, per quanto riguarda un linguaggio di potere o privo di potere, è la testimonianza di don Egidio, che denuncia una malattia provocata da un filtro datogli da Bellezza. Quello che rende interessante, e sconvolgente, questa testimonianza, è che don Egidio afferma di essersi ammalato e non trovando un rimedio alla malattia, si è rivolto a … uno stregone, addirittura un prete, di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli dice: “T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto”. Il prete/stregone dice che Bellezza gli ha fatto bere un filtro composto di sperma e sangue catameniale, gli somministra un qualche emetico che lo costringe a vomitare e don Egidio è guarito, ma non prima di essere stato informato che la responsabile è Bellezza Orsini.

Il fatto sconvolgente in queste poche parole è che il prete stregone non viene denunciato, non viene inquisito, a lui, possessore della parola, del logoV, non viene richiesta nessuna spiegazione, mentre qualsiasi giustificazione la donna possa esporre non viene letteralmente sentita.

Queste tre testimonianze sono sufficienti ad aprire il processo vero e proprio e durante questo vedremo come la parola di Bellezza riesca a variare secondo le sue paure ed i suoi stati d’animo.

Purtroppo Bellezza Orsini si lascia prendere dal terrore e prima del processo cerca di fuggire dal paese: naturalmente la fuga non riesce e viene imprigionata fino all’inizio delle udienze.

Bisogna sapere, a questo punto, che tutti i processi per stregoneria venivano aperti con una domanda rivolta all’accusata, sempre la stessa domanda: “Credi alle streghe?” , secondo quando stabilito dal super manuale per la caccia alle streghe, il nefando Malleus Maleficarum. Questa domanda era di una perfidia perversa, perché, se l’accusata rispondeva in modo positivo, era finita, carne da bruciare, in quanto aveva ammesso implicitamente di essere una strega. Se invece rispondeva di no, allora il processo veniva immediatamente aggiornato e si trasformava in un processo per eresia, poiché la chiesa ufficiale credeva all’esistenza delle streghe. Nei due casi la fine era la stessa per l’imputata: il rogo.

Bellezza inizia a raccontare dicendo di non sapere il motivo per cui si trova di fronte al tribunale e cerca di presentarsi in modo accativante nella sua veste di guaritrice, che senza ombra di dubbio, doveva essere reale. Dice: “Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. …. vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. … Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato.” Sembra qui evidente una specie di mascheramento femmineo di Bellezza, come se interpretasse la parte che gli uomini si aspettano da una povera vedova indifesa: l’abito di terziara laica francescana, la confessione ai frati, il suggerimento di questi a non guarire più perché è peccato, tutto porta a considerare che la donna stia tentando di sminuire se stessa e i suoi poteri, conoscenze e capacità, in modo da non urtare ed ingelosire la società maschile.

Subito dopo, però, ha come un rigurgito di orgoglio e dice: “Io li infermità li cognosco alla vista, e che male hanno”, poi, vedendo forse l’espressione degli inquisitori, gioca la carta della confessione/ritrattazione: “Trista me, quanto male ho fatto nanti che me sia vestita (da francescana). Ma da poi che me so vestita non ho facto mai più male. Quanto male, quanto bene ho facto io in mia vita!”.

Bellezza appare dunque consapevole di quanto sta rischiando e si appoggia ad un linguaggio basato sullo stereotipo femminile, cercando perdono e compassione e, infine, accettazione, insieme però, e qui forse dobbiamo cercare il vero linguasggio femminile, dimostra anche orgoglio per quanto è stata capace di fare.

Il procedimento continua ed il giudice insiste nel volere particolari sulla condotta di Bellezza prima della conversione. A questo punto, di nuovo la donna ha un sobbalzo di orgoglio, che finirà per perderla, e non varrà a nulla che, alla fine del suo lungo discorso, si dica pentita, ricadendo nello stereotipato linguaggio femminile e chieda perdono: “Io ho messo male tra marito e moglie, guasti molti parentati con dir male delli uni e delli altri, e contentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi mi è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e siculari, pure che me sia piaciuto ad me”. Non c’è veramente bisogno di mettere in evidenza che nel XVI secolo una donna che parlasse come Bellezza non aveva diritto all’esistenza, e questo fare quello che a lei era piaciuto fare, questo amore di sé, non poteva essere il comportamento di una donna normale, ma solo quello di una strega, asservita al demonio.

L’accusa viene formalizzata: Bellezza viene accusata ufficialmente di essere una strega, il che provoca una veemente protesta da parte sua: “Io non sono strea!. …Io non so che se sia strea, e ne manco aver commiso homicidio, … e ne manco aver infermato nessuno, ma guariti sì, e medicati, con questo mio olio fiorito, e non altramente. Me dicete strea? Ogni cosa porria haver facto e dicto, salvo de essere strea!”.

La sua è un’affermazione piena di orgoglio, che l’inquisitore, naturalmente non accetta: la donna parla con conoscenza delle sue cose, si vanta quasi della sua vita libera, padrona di se stessa, sa di avere conoscenze che altri non hanno, conoscenze che le derivano da altre donne che le sono state maestre, come lei vorrebbe insegnarle ad altre: un pericolo! Una donna, che appartiene alla parte silenziosa, sottomessa, subalterna, afasica dell’umanità, che osa proclamare la sua ragione e il suo diritto a vivere come vuole davanti ad un tribunale composto solo, sempre, unicamente di uomini, in un tempo storico in cui l’antifemminismo era diventato una religione? Inconcepibile! Ma se l’imputata confessasse di essere effetivamente una strega, allora potrebbe essere considerata parte di quei diversi da emarginare, possibilmente da eliminare, dopo che si siano piamente pentiti di aver anche solo osato esistere.

Nel caso di Bellezza Orsini, i particolari che ne fanno un’emarginata nella società del suo tempo sono molteplici e diversi: il sesso, prima di tutti, l’età non più giovane, la vedovanza, il ceto e soprattutto l’appartenenza ad una comunità sacra, allacciata ai riti antichi, per non dire nulla delle attività praticate, della spregiudicatezza, della libertà sessuale, inconcepibile a quel tempo. Rendendosi conto della realtà, tenta il suicidio, ma viene salvata, salvata per il rogo, come esempio a tutti. Dirà dopo questo inutile tentativo di averlo fatto non per “paura del martorio”, ma per la volontà di percorrere sino in fondo da protagonista quel cammino che vede ormai segnato davanti a sé.

Bellezza si è condannata con le sue stesse parole: viene consegnata al boia per la tortura, ma prima è sottoposta al supplizio della corda.

Dopo due sessioni di tortura Bellezza comincia a raccontare e naturalmente lo fa mascherata di femminilità, così come i giudici la vogliono: racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quanti, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato, di aver perpetrato malefici su pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati, che lei stessa aveva fatto morire, per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese.

Sembra che la povera donna accenni qui ad una specie di genealogia femminile, ad un sapere trasmesso tra donne e fondato sulla reciprocità e la comunicazione. Viene subito alla mente che le donne tra di loro possono, talvolta, usare il loro proprio linguaggio e capirsi e dimenticare quelli che sono gli stereotipi di fermminilità voluti dalla società maschile. E’ anche evidente che, in un’epoca in cui le donne sono rigorosamente segregate rispetto ad ogni forma di acculturazione che superi i limiti del ricamo, del cucito, e delle cure domestiche, questo indottrinamento da donna a donna all’interno di pratiche a metà tra omeopatia e superstizione, fitologia e fascinazione, costituisce l’unica forma di istruzione accessibile per le popolane, vittime di una doppia marginalità, di genere e di status.

Il giudice non è ancora soddisfatto, perché in realtà Bellezza non ha veramente confessato di essere una strega e in particolare non ha confessato di aver avuto commercio carnale con il demonio, quindi ordina altre sessioni di tortura: la ruota, questa volta.

Spezzata fisicamente e moralmente, almeno in apparenza, Bellezza dice nuovamente di voler confessare proprio tutto, e si lancia in un delirio di racconti satanici, fornendo all’inquisitore, allibito e finalmente soddisfatto, tutti gli stereotipi del tempo sui sabba, i voli notturni, le unzioni, i riti orgiastici, le pratiche sodomitiche, insomma tutto quanto l’immaginazione popolare ha pensato, inventato, sognato sulle streghe, quelle fittizie, nate dall’immaginazione e dalle favole. Naturalmente gli incontri si svolgono sotto la grande quercia di Benevento e poco importa che sia lontano dalle colline dove vive Bellezza, perché i diavoli, e ogni strega ha il suo, possono trasportarle, in forma di caproni, ad una velocità incredibile.

Tuttavia, nel buio della paura e della tortura, Bellezza Orsini trova, a tratti un soprassalto di orgoglio e alcune verità traspaiono dalle sue parole, verità, purtroppo, che non servono ad allontanarla dal rogo. Dice che tutta la confraternita delle streghe, (usa questo termine perché capisce che il giudice vuole sentirlo, quindi si adatta al suo linguaggio, per dargli un’informazione che il suo orgoglio le vieta di nascondergli), tutta la confraternita è governata da una gerarchia, in basso chi ha meno conoscenze e meno esperienza, in alto chi è più esperta, e le streghe sono governate a turno da una di quelle con la più grande esperienza. Lei ha agito in questo ruolo diverse volte, perché sono più di trent’anni che pratica la sua arte. Inoltre la confraternita stessa non è composta solo di povere donne come lei, ma anche di ricche e nobili e “belle” signore, che cominciano dal gradino più basso della scala e solo quando sono diventate sapienti ed abili possono accedere a posti di comando.

Questo fatto, dell’organizzazione di donne, esperte in un sapere femminile antico, passa quasi inosservato: eppure era, per la società del tempo, un’informazione veramente pericolosa e distruttiva. All’inquisitore, tuttavia, importavano i sabba, gli unguenti venefici e malefici, le orge sessuali demoniache e non altro. In queste quasi ultime parole Bellezza ritrova la lingua di tutte le sue consorelle, parla con parole di situazioni che non possono essere capite da chi usa un linguaggio maschile, in una società che intende tenere le donne emarginate: forse cominciamo a capire solo in questi ultimi anni.

Naturalmente il giudizio dell’inquisitore è di condanna: il rogo attende la povera strega/guaritrice, colpevole per prima cosa di essere donna e di rappresentare, quindi, un pericolo per l’inconscio maschile e per la società da questo dominata.

Bellezza ancora una volta ritrova la sua dignità, dopo aver subito l’abiezione di abbassarsi a confessare un cumulo di sciocchezze, tentando di sfuggire al rogo, rinchiusa nella sua cella, si ferisce due volte alla gola con un lungo chiodo e muore dissanguata.

Seneca, nel De ira (3.15.14) scrisse: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo.

Dopo un fatto tanto triste come la storia di Bellezza Orsini, vorrei prendere in esame qualcosa di meno tragico, anche se relativamente meno tragico, considerando che uno dei poeti pose termine alla sua vita suicidandosi. Tuttavia i testi che metterò a confronto parlano d’amore, e, qualunque sia la sua riuscita, un amore è sempre qualcosa di splendido, positivo e abbagliante, nel momento in cui vive e per chi lo vive. Se le voci che ce lo raccontano sono voci di poeti, allora questo amore vive anche per chi legge le loro parole, anche molti, molti secoli dopo.

Intendo mettere a confronto il frammento 51 di Saffo, poetessa di Lesbo, vissuta nel VI secolo a.C. e l’omologo frammento 51 di Catullo, poeta latino, di origine celtica, contemporaneo di Cesare e Cicerone, vissuto nel I secolo a.C, nel periodo di decadenza repubblicana immediatamente precedente la nascita dell’impero.

I due frammenti rimastici delle due odi sono uno la traduzione dell’altro. Catullo, appartenente al gruppo intellettuale dei newteroi, seguace dell’estetica alessandrina, tradusse la splendida ode di Saffo, all’inizio della sua storia d’amore con Clodia, nobile donna romana, almeno così si ritiene comunemente, che cantò attraverso tutta la sua opera con lo pseudonimo di Lesbia. La sua è una poesia, quindi, che racconta da parte maschile l’inizio di un amore, l’incertezza, la meraviglia, la confusione dell’innamorato, quando ancora la donna amata non sa o finge di non sapere.

Saffo, viveva invece nell’isola di Lesbo, un piccolo stato di lingua eolica (uno dei tre grandi dialetti letterari del greco antico), non troppo lontano dalla costa asiatica dell’Egeo. Qui possedeva una scuola per giovani e ricche ragazze, che da lei imparavano le arti: musica, poesia, canto e danza. Restavano nella scuola per la loro educazione e la lasciavano per andare spose, secondo il volere dei loro padri. Le ragazze vivevano ruoli totalmente sottomessi, femminilmente sottomessi, secondo le regole della società greca, erede dell’invasione ariana che aveva portato al potere gli Achei, appartenenti ad una società tipicamente patriarcale. Questi avevano sconfitto la preesistente cultura cretese, basata invece su una società matriarcale, e diffusa in particolare sulle isole egee e sulle coste dell’Asia minore. Per questo è estremamente indicativo ed importante che Saffo sia di Lesbo: in questo piccolo stato, ancora nel VI secolo a.C., le donne avevano un certo potere, potevano avere una carriera, la loro voce era ascoltata, sentita, capita: come la voce della divina Saffo, coronata di viole, come il conterraneo Alceo la definì.

I due frammenti, come ho detto traduzione l’uno dell’altro, forse sono uno dei rarissimi documenti che possono evidenziare le differenze tra linguaggio maschile e linguaggio femminile, chiarificare, anche se solo parzialmente, le differenze di espressione , parlando dello stesso soggetto, tra i due sessi.

Saffo, LI.:

Fainhtai moi khnoV isoV qeoisin A me pare uguale agli dei

emmen wnhr, ottis enantioV toi chi a te vicino così dolce

irdanei kai plasion adu fwnei- suono ascolta mentre tu parli

saV upakouei

kai gelaisaV imeroen, to m h man e ridi amorosamente. Subito a me

kardian en sthqesin eptoaisen. il cuore si agita nel petto

wV se gar idw broce, wV me fwnaV solo che appena ti veda e la voce

ouden et eikei,

alla kam men glwssa m eage, lepton non esce e la lingua si lega.

d autika. crw pur upadedromaiken, Un fuoco sottile sale rapido alla pelle

oppatessi d ouden orhmm, epirrom- e ho buio negli occhi e il rombo

beisi d akouai, del sangue alle orecchie

a de m idrwV kakceetai, tromoV de E tutta in sudore e tremante

paisan agrei, clwrotera de poias come erba patita scoloro:

emmi, teqnakhn d oligw pideuhV e morte non pare lontana

fainom , all… a me rapita di mente

(trad. Salvatore Quasimodo).

Catullo, LI.:

Ille mi par esse deo videtur, Lui mi sembra simile a un dio

ille, si fas est, superare divos, lui, se è possibile, superiore agli dei

qui sedens adversus identitem te lui che, sedendoti di fronte talvolta

spectat et audit ti guarda e ti ascolta

dulce ridentem, misero, quod omnis mentre ridi dolcemente, ciò che

eripit sensus mihi: nam simul te, a me ottenebra i sensi: infatti, non

Lesbia, aspexi nihil est super mi appena ti ho vista, Lesbia, nessuna forza

mi è rimasta,

…….

Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si è intorpidita e sotto la

pelle un sottile

Flamma demanant, sonitu suopte fuoco si diffonde, per uno strano suono

tintinnant aures, gemina teguntur tintinnano le orecchie, gli occhi

Lumina nocte. si coprono di duplice notte.

Come si può osservare facilmente, i due carmi, pur essendo la traduzione l’uno dell’altro, sono fondamentalmente differenti, e non solo per la libertà della versione catulliana.

Saffo, infatti, pone l’accento con grande precisione ed incisività sullo stordimento dei sensi: il suo, nel guardare l’oggetto amato, è un vero, reale dolore fisico, tutte le manifestazioni della passione si riflettono sul corpo della poetessa. Impiega, per esprimersi, un vero linguaggio femminilmente connotato, che tiene in conto non solo anima e mente, ma soprattutto il corpo ed i suoi movimenti, i suoi istinti, in una parola il linguaggio corporale.

Al contrario, Catullo ha sostituito alla confusione ed allo stordimento dei sensi una più insistita osservazione degli effetti sentimentali della passione, ed ha ottenuto questo scopo eliminando alcuni punti dell’ode saffica, oppure stilizzando espressioni corporee in stati d’animo. Ad esempio, Saffo dice di essere tutta coperta di sudore, di avvertire il rombo del sangue nelle orecchie (dove Catullo dice che le orecchie tintinnano) e di essere più verde dell’erba. La meravigliosa traduzione di Quasimodo non rende purtroppo bene questi particolari, e l’essere più verde dell’erba non compare per nulla: tuttavia dobbiamo pensare che Quasimodo reinterpreta da parte maschile una descrizione prettamente femminile, e forse a lui, come a Catullo, mancavano le parole, il linguaggio adatto per rendere con verosimiglianza il discorso femminile della più grande delle poetesse di ieri e di oggi.

BIBLIOGRAFIA

Cameron, D. Feminism and Linguistic Theory. London: MacMillan, 1985.

Hall, K. and M. Bucholtz. Gender Articulated. Language and the Socially

Constructed Self. New York: Routledge, 1995.

Hooke, S.H. Middle Eastern Mythology. London: Penguin, 1991.

Kemp, S. And P. Bono. The Lonely Mirror. New York: Routledge, 1993.

Kramarae C. Women and Men Speaking. Rowley: Newbury House Pub., 1981.

Morford, M.P.O. and R.J. Lenardon. Classical Mythology. White Plains: Longman,

1995.

Tozzi, I. Bellezza Orsini. Cronaca di un processo per stregoneria. Antrodoco:

Nova Italia.

Whiteford, M. The Irigaray Reader. Oxford, Basil Blackwell, 1991.

Donna Lombarda: studio della canzone

settembre 26, 2008

“DONNA LOMBARDA” AL MICROSCOPIO

La famosa canzone popolare piemontese attraverso l’analisi filologica e strutturalista: reale fatto storico oppure favola?

Laura El-Mouelhy Mossino

11.12.2001

Come tutti coloro che intendono trattare della poesia popolare piemontese, anch’io mi rifaccio a Costantino Nigra ed alla sua opera fondamentale, Canti popolari del Piemonte, pubblicata per la prima volta nel 1888 ed immediatamente diventata il testo sul quale tutti gli studi posteriori si sono basati e, nonostante il passare del tempo, ancora si basano. La raccolta dei canti popolari piemontesi condotta da Costantino Nigra e dai suoi collaboratori è il primo esempio di studio scientifico e sistematico in particolare di quel genere, tipicamente subalpino, che è la canzone epico-narrativa, che costituisce la maggior parte delle canzoni e delle composizioni folcloriche del Piemonte.

Prima di porre Donna Lombarda, famosissima canzone epico-narrativa, sotto la lente del microscopio, credo che sia bene dare alcuni cenni su questo tipo di canzone e spiegare per quali motivi la si giudichi tipica del Piemonte e delle altre regioni dell’Italia settentrionale. Leggi il seguito di questo post »

Hello world!

settembre 26, 2008

Welcome to WordPress.com. This is your first post. Edit or delete it and start blogging!